Il Teatro Filosofico. Dell'essere e del Teatrabile
CAPITOLO PRIMO.UNA CURA DELLA SAPIENZA.
Modalità dello sguardo sul mondo, o del mondo-pensiero che pensa se stesso, o sapere della totalità di ciò che è, comprendente quello che chiamiamo mondo: tale potrebbe definirsi, nel suo coscienzioso e dolce naufragar, la filosofia.Filosofia, nel linguaggio del logos occidentale, inseguitore della Storia, mentre questa insegue quello, significa molte cose, ma soprattutto dominio della Cosa, come dominio sulla Cosa, se philìa diviene possesso e sophìa lo spirito del logos alienato nell'objectum. Infatti, se prima ob-jectum denota l'immagine mentale del sub-jectum, che è la sub-stantia, cioè la realtà del quid che mi sta innanzi, e successivamente - da Cartesio - denota invece la Cosa stessa, essendo sostanza essa stessa ma separata e correlata alla sostanza soggettiva pensante; è necessario, nel destino di obnubilamento spirituale che la coinvolge, che filosofia venga a denotare una semplice disciplina 'soggettiva' il cui indice di efficacia consiste nel potere che sugli oggetti sarebbe in grado di esercitare, questo essendo il programma di fondo del criticismo kantiano. Alla prova della sua efficacia, come tecnologia del pensiero essa perde miseramente, e non può che scendere a compromessi sempre più laidi, finché non venga abbandonata. La Philosophia boeziana è ancora in cenci sempre più consunti e laceri, e naufraga anch'essa, perché non all'altezza delle esigenze della tecnica e della morte che questa porta con sé. L'Occidente sta al crocevia di una krisis del pensiero e della sua esistenza senza precedenti ( o forse con precedenti che la coscienza dell'uomo rimuove regolarmente resettandosi da benpensante ), e se si dovesse tracciare una mitobiografia del pensiero filosofico occidentale a partire dalla Musa di Parmenide fino al Socrate platonico; dalla Madonna Filosofia dei monaci di Chartres fino alla Nottola hegeliana, si scoprirebbe, con costernazione, che dalla sfera attingibile del divino, l'amore per il bello il bene e quindi per la sapienza, la filosofia si è trasformata in un rapace che si accontenta di sapere cosa è successo il giorno prima: ovvero, in un rizomatico ritmo di proliferazione creatrice che distilla l'evento più potente eleggendo selettivamente il Senso che coincide con quel Medesimo degno di Ritorno di deleuziana confessione. D' altra parte la filosofia scientifica dei genitivi sassoni, sbizzarritasi a fare economia di verità e di metafisiche si è resa utile e anche dilettevole, giocando con le matematiche, sapienza ancipite di ogni tecnica.Necessita una dotta ignoranza, un lasciar dire alla philosophia ciò ch'essa sa d'essere, fino a quando l'uomo calpesterà il suolo della Terra. Picasso o Malevič ne sapevano più degli uomini di Altamira o del Fiume Giallo? Gli oscuri maestri dell'Antichità che crearono il tamburo o il flauto, ne sapevano meno di Mozart o John Cage? Parmenide ne sapeva meno di Hegel o di Bertrand Russell? Quegli o coloro i quali scrissero i Veda o Le mille e una notte ne sapevano meno di Dante o Umberto Eco? E che significa sapere, ovvero comprendere, come essenziale stato dell'essente in quanto è? Non sarà che, forse, Picasso e Malevič, Mozart e Cage, Hegel e Russell, Dante e Eco, chi coscientemente e chi no hanno tentato e tentano di recuperare e risalire, come i salmoni che per riprodursi ritornano al fiume da cui sono nati, qualcosa dell'essente stato, il Gewesenes ancipite che si è manifestato in regioni del tempo e dello spazio ormai inattingibili se non dall'immaginazione e dal pensiero, per non parlare dell'essenza e della memoria del corpo? ( Che poi è l'essente stato che è il Medesimo che è il Senso, ciò che accade sempre, come nella favola del Vecchio Maestro di Jung ). Cosa cerchiamo se non l'Origine, l'identità dell'essente che siamo nello sforzo di rassomigliarvi? Nello sforzo di essere semplicemente essere? E non constatiamo la regolarità del fallimento, del naufragio della notte oscura, che è traccia, indizio e promessa sempre da venire, sempre impossibilmente realizzantesi della liberazione, dalla non-verità alla verità?Ciò che cerchiamo allora ha dovunque il suo centro, è dovunque accadono l'essente e il destino, noi stessi; e noi stessi siamo la risposta alla domanda che cosa sia la verità. Qui deve celarsi ogni sapienza, ogni modalità di sapere e di dotta ignoranza, ogni errore ed errare, ogni scepsi, ogni sentiero dell'euristica come del suo contrario, ogni muraglia dogmatica. In noi, in definitiva, dall'origine l'Intero esige di venire alla Manifestazione.Dunque sapienza è prendersi cura dell'essente del destino - la Gioia.E Filo-sofia è Cura della Sapienza che realizza il legame con il Tutto, illuminando l'essente come convibrazione ed empatia. Queste le dinamiche che risuonano nella philìa, che è a sua volta una forma dell'amore, dell'eros, dell'agape, della charitas, modalità dell'essere-in-amore. La chiave del termine non è Sapienza, sophìa-logos, ma philìa: quindi l'amore-che-lega illumina sophìa, essendone la condizione di possibilità; l'amore il quale è la potenza trascendentale che identifica le differenze, l'amore che plasma transfinitamente il Molteplice nella Forma dell'Uno. Ora, il discorso sull'amore, come tale è una impossibilità nella misura del fatto che l'amore non può contemplare se stesso, non svolge la sua theorìa se non dall'altro che lo lega. Il logos dell'amore ha il suo fondamento nell'essere-in-relazione, essere-in-relazione che rende impossibili e contraddittori i soggetti in quanto singolarità attrici dell'amore e quindi gli assoggettati all'amore come isolati dalle loro costellazioni. In altre parole, per pensare l'amore incontraddittoriamente, è necessario pensarlo come ciò che identifica gli amanti come identici differenti. La formula severiniana ( A = B ) = ( B = A ) significa l'identità delle differenze che si co-appartengono strutturalmente nella totalità dell'essente. L'amore - a-mors, senza fine, quindi immortale - , testimonia la dimensione ontologica profonda ed eterna del Tutto del legame che gli essenti intrattengono nel loro essere l'uno nell'altro, l'uno per l'altro, l'uno accanto all'altro, laddove nel, per, accanto tentano di indicare l'identità originaria e non l'alterità, che implica il divenir altro degli enti . E se il Tutto è amore, ogni essente è l'amore, poiché ogni essente è il Tutto. Perciò nel Tutto l'ascolto è la relazione autentica che rende viva la verità dell'identità degli essenti, i quali convibrano nell'infinita processione del loro apparire.Ma chi ascolta il canto della sapienza dell'essente, chi risponde, chi apre e estende il cerchio della verità dell'essente amante?L'amore è la potenza eterna che sviluppa e integra la volontà del destino dell'essere. De-stare è il fondamento che sta nella sua propria struttura come massima incontrovertibile necessità dell'essere che è impossibile che non sia. La necessità che l'essere sia è impossibilità del nulla, quindi il tempo non riserva il nulla per gli enti, ma l'eterno che costituisce la natura ontologica degli stessi enti, dell'essente nella sua totalità. Ogni chi, ogni cosa sviluppa costellazioni nel cerchio finito dell'apparire, apparendo dalla potenza del destino. E la necessità che gli essenti accadano è identica alla necessità che tutto accada, per essi, in essi, oltre il compimento del loro apparire. Eppure la sapienza del destino dell'essere è celata nel sottosuolo della coscienza nichilistica che vuole la propria potenza alienandosi nel proprio sogno, sogno che a sua volta è il sottosuolo della verità, e che quindi è non verità, con tutto il suo dolore e il suo piacere, le sue visioni, fedi, illusioni, invenzioni, immaginazioni, attraverso le cui fenditure però si fanno spazio i soli irradianti la Gioia trascendentale del destino.Che cosa è la terra, nell'interpretazione della non-verità, se non lo spazio che spalanca alla volontà il suo dominio? Un non-nulla, il luogo della disseminazione di ciò che è disseminabile, un mezzo per raggiungere scopi, il teatro della distruzione che la fede nel nulla della terra arma e allestisce per mettere in scena la sua verità. Così necessariamente, apparendo l'essente, deve apparire l'immagine della sua negazione - e da questa allucinazione, la follia della fede che crede che il divenire degli enti sia il passaggio dal nulla all'essere e il ritorno al nulla, sia pure il grembo di un dio. Dunque il chi in ascolto della sapienza della verità è assoggettato alla volontà di potenza della sua persuasione di essere niente.L'uomo, l'anthropos planetario, è smarrito, naufrago alienato, nel palcoscenico dell'essente che egli stesso aveva allestito per comprendersi, per assumere il suo ruolo in un universo terrificante, spaventoso, una trappola che come tale egli interpretò scegliendo la negazione della verità per la non verità, una sorta di santa fiducia rassegnata al destino di morte, a vantaggio di teodrammi immemoriali, di battaglie infinite e di potenze che si scontrano ai confini del soprannaturale, tutte con il privilegio dell'eternità.Ma che cos'è propriamente il teatro filosofico della volontà di potenza, il mondo che l'uomo crede di essere? Theatron è il luogo-da cui-si guarda, il luogo fisico dove si rap-presenta e re-cita il divenire del desino degli eroi il loro venire alla luce come le maschere del dio che nasce e muore e risorge alla memoria, lo spazio sacro che nelle maschere smaschera ritualmente ciò che siamo: un non-niente in balìa degli dèi. La sapienza di Zeus è la consolazione del mortale, di colui che vive nella fede nel nulla. Il terrore della morte è solo sospeso dalla sapienza della finitezza di cui l'uomo è il libero prigioniero. Così il teatro nasce, perché gli uomini cercano la sapienza che la terra non può contenere; così gli uomini abbracciano quello che credono essere il loro destino. La tecnica, il trarre il bene dal bello, l'arte di raggiungere scopi si afferma come la suprema forma di rimedio e consolazione dal naufragio. Il mito e le religioni sono le forme aurorali della tecnica che adesso costituisce l'orizzonte onnicomprensivo dell'essenza umana, avvolgendola nel suo sogno di potenza. Il teatro del mondo alienato, la dimensione della terra isolata mostrano la desolazione delle sue maschere e nessuna mitoteologia catecontica può trattenere il nulla che l'esserci dell'uomo crede di essere. Il chaos non vuole altro che chaos, ma la sua necessità scaturisce dalla stessa necessità che lo spalanca, perché la potenza del destino manifesti l'Intero nella Gloria.Chi sono io, chi è l'io che ama, e che insiste nel sogno del mortale, nella follia dell'isolamento, che odia, adora, gode, soffre, nasce, muore? L'idolo delle masse soggiogate dal pastore di anime che ha la stessa anima del Grande Inquisitore dostoevskijano è quest'io che vuole, che agisce, che esige, da soggetto, l'assoggettamento, che è la regola del potere. Ma il suo orizzonte schiacciato in un paesaggio labirintico che richiede geodetiche improbabili per muoversi o credere di farlo, per poi ritrovarsi sempre nello stesso punto, non è che la periferia dell'essente e della verità. La presunta identità dell'io empirico, del cosiddetto soggetto individuale non è che volere, pallido riflesso e parodia del Sé del destino, o come lo tematizza Severino, l'Io del destino.Lo spettacolo della volontà di potenza si nutre di stesso, ma al contempo dispiega dal suo interno un sottosuolo eversivo che ne fa lo spettacolo delle contraddizioni patogene della volontà.Il teatro - theatron, come detto, luogo-da cui-si guarda e attività articolata strutturalmente come fare, agire, volere, come Ars, dunque, e Téchne - è un modo dell'essere-al mondo, che è un modo della fede della Terra isolata. In esso si spalancano le contraddizioni dell'essere-al mondo raccolte nell'orizzonte di quella non-verità consistente nella persuasione, nel voler che, nella fede, in una parola, che le cose, noi stessi, la nostra vita, l'universo potrebbero non essere, potrebbero essere altrimenti, sicuramente non saranno più. Insomma, il teatro rispecchia il divenire dell'essere delle cose così come l'interpretazione di una pretesa evidenza dice che sia: un venire dal nulla e un ritornarvi, nel senso dunque di essere, noi stessi, un non-niente, in definitiva un niente. Che qualcosa possa contemporaneamente o nel tempo essere e non essere; che si partecipi di una 'verità' divina che detiene il privilegio dell'essere eterno e infinito e che necessariamente rende l'essere partecipante accidentale o contingente rispetto a se stessa; oppure ritenere che si sorga dalla casualità di serie causali per poi essere annientati nel magma del divenire biochimico della materia cosmica, è la contraddizione suprema del nichilismo occidentale, è Follia, come Emanuele Severino va mostrando da alcuni decenni. Di questa Follia, contraddizione, di questa nichilistica persuasione del nulla di tutte le cose il teatro è necessariamente specchio e turiferario.Ma se il teatro è "specchio della natura", ovvero se alla natura "regge" lo specchio, è però anche vero che come tale riflette una immagine della natura, della coscienza di cui consiste la 'natura' nell'orizzonte autocosciente non di questa, ma dell'uomo che sogna; uomo il quale a sua volta è sogno sognato dalla volontà di potenza, il contenuto della dimensione di angoscia mortale della sua vita. Ogni sogno però è il risvolto di una veglia, e quello stato di veglia di cui si tenta di tratteggiarne l'essenza è la verità, come philìa sofianica che sta dietro la non-verità che il sogno è. In altre parole, ciò che riteniamo vero, reale, nella persuasione folle - il 'mortale' che noi stessi siamo, il niente che noi stessi siamo, il transeunte, l'impermanente, l'agglomerato provvisorio di modificazioni infinite che siamo e che ogni cosa è nel suo apparire illusorio, come la dottrina buddhista dello shunyata sostiene - questo è la non-verità, in quanto contraddizione, separazione, squartamento dell'essente dalla sua identità; questa è la nostra fede, convinzione, persuasione. Il suo risvolto è la luce che abbiamo deciso di non vedere: l'essere del Tutto che è l'eternità di ogni essente che noi stessi, ogni cosa e accadimento è."Ma, com'è possibile - chiede la fede nichilista nel nulla - che siamo eterni dal momento che moriamo, nasciamo, dal momento che le cose si distruggono, dal momento che i mondi succedono l'uno dall'altro per finire annientati?".L'apparire degli essenti svolge il destino dell'esser sé degli essenti. Il cerchio dell'apparire manifesta il destino di ogni essente come necessariamente legato all'apparire del Tutto e l'eternità va intesa non come l'altro dal Tempo ( piuttosto è il Tempo, nella interpretazione della volontà, la non-verità dell'eterno, allorché è pensato all'interno della Terra isolata del divenir altro, quindi niente, da parte dell'essente ), ma come la vita del divenire come apparire e scomparire degli essenti nella dimensione dell'apparire; come il loro sorgere e compiersi nel Tutto. Gli essenti sono eterni perché è impossibile che non lo siano - se non lo fossero sarebbero niente, cioè una impossibilità, una contraddizione, una follia - e giacciono nell'infinito Tutto, oltrepassati e conservati. Tale è l'inaudito senso di questo destino, che il Tutto è Gioia.Ora, se il teatro è "specchio della natura" è specchio che riflette la nostra immagine isolata, alienata, mortale, nichilistica. Può dunque, il teatro, sciogliere le catene della persuasione del nulla o del dio che vuole, sia pure il Bene, che tengono prigionieri gli essenti - tutto l'essente - nella follia della tecnosfera del mortale, nuova religione del nostro tempo? Può il teatro, un teatro filosofico, oltrepassare la persuasione omicida che vuole che l'uomo sia niente? Quale teatro può spezzare i vincoli della persuasione dell'isolamento della Terra dalla verità del Fondamento, e degli individui che abitano la Terra, ravvolti e divorati dalla volontà che di essi si nutre?Sappiamo che il teatro come ogni attività umana, come ogni attività del mortale, come rimedio, quindi come ars e téchne, è assoggettato al 'divenire' inteso nichilisticamente. Esso può morire e rinascere, decadere, naufragare e perciò esso è lo stesso niente comune a tutte le cose. Così il teatro è la prodigiosa metafora di questi cicli, consistendo nello slancio lirico del suo proprio canto la metafore del sublime gioco dell'annientamento di ogni ente; è la metafora e il simbolo del naufragio umano che lancia il suo grido o la sua risata verso l'ignoto senso che dovrebbe pur raccogliere l'essere del Tutto in una Unità, una Forma, un senso che però sfugge restando oscura e angosciante. La coscienza filosofico-epistemica del teatro consiste nell'autocoscienza - per dirla hegelianamente - di una Ragione che togliendo ( apparentemente ) le contraddizioni libera progressivamente lo Spirito illuminandolo ( nella sua illusione di comprendere in sé e per sé il senso della propria destinazione ) nella sfera infinita di un Assoluto che attraverso il proprio divenire perviene alla propria consapevolezza, compiuto, realizzato.Ma il giogo che l'Assoluto non può risparmiare gli enti è l'angoscia stessa di una autocoscienza persuasa del proprio nulla, che, appunto, esige di essere tolto, negato, in vista della realizzazione di quello.Così il teatro mostra lo spettacolo di questa angoscia, una angoscia tragica e co(s)mica.E tragedia e commedia sono i mezzi attraverso cui la volontà crede di rimediare alla sua desolazione, flettendo l'Inflessibile dominando il dio che dominava annientando gli uomini. Adesso è l'uomo che domina il dio. Il dio che muore e rinasce è canto del capro espiatorio che egli stesso è - che egli stesso scopre di essere - ; è il canto sublime che scaturisce dal grido del 'mortale' che scopre che è lui quegli che deve morire, quegli che forze oscure hanno destinato all'annientamento. E se il "Sommo Zeus" salva dall'angoscia è perché può dare la sapienza, e cioè la conoscenza del divenire vano o significativo - o significativamente vano ( "signified nothing" ) - del Tutto e della vita umana. Da ciò che è sacrificato nasce il Canto del Sacrificio.Correlativamente, dal delirio falloforico, dalla collera isterica della rivolta metafisica, dalla volontà di liberare la smorfia lirica del riso danzando, e in processione, scavando un solco nell'ordine dell'angoscia, scaturisce il comico - dal kòmos, il corteo che inneggia alla maschera stagionale del dio che bilancia le morti e le nascite, il dolore e il piacere, il silenzio della terra e delle viscere e il germogliare delle coltivazioni e della fertilità dei mortali.Così tragedia e commedia si costituiscono come le forme scaturenti dal vissuto della flessibilità dell'Inflessibile, o meglio, del passaggio alla flessibilità dell'Inflessibile che la téchne opera per addomesticare e sopportare il giogo del divenire, dell'annientamento del mortale, fino al compimento della morte in cui ogni vivente pagherà il prezzo dell'ingiustizia d'esser nato.Anassimandro ed Eschilo risuonando nella sfera del Pensiero, hanno gettato le fondamenta di una persuasione che ci ha reso sovrani del nulla. Lo scranno della Tecnica si erge su una civiltà che celebra solo l'eterno ritorno dell'isolamento della volontà che vuole che l'essente sia altro, che soggioga l'essente per piegarlo ai propri scopi, che infine, isolando se stessa dalla Gioia del Tutto crede di essere mortale, fa del mortale un niente cannibalizzandolo. Così, dolore e piacere sono alternanze di un desiderio senza fine, che esige il proprio appagamento impossibile che si spera la morte plachi o il dio riscatti.Può l'uomo - un 'oltreuomo'? - restaurarsi all'età dell'oro? Può l'uomo tornare a sapere di essere un dio? Può l'uomo trasfigurare il proprio inevitabile agire attingendo alla sapienza inaudita dell'Io del destino, liberato dalla morte, dalla violenza, dal desiderio, dal nulla?E può, l'immiserita téchne del teatro ripensarsi come il Canto dell'essere in cui Tutto è in tutti, in cui il dolore e il piacere, la sofferenza e la gioia sono il medesimo canto degli eterni, che manifesta il legame, la philìa, di ogni 'io' e dunque l'integralità di ogni 'io' isolato all'Io del destino, che "è l'autentico Altro dagli umani e dai divini della terra isolata"? ( E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, p. 211 ).Quale teatro, o quali teatri, intendendo con la parola teatro proprio l'arte della visibilità del cum-munus, del dono comune, di ciò che costituisce la forma unificante, incontrovertibile, del destino del Tutto nel suo canto di Gioia, possiede la luce del Giorno capace di oltrepassare la follia del mortale?
CAPITOLO SECONDO.METAFORE CHE TRAGHETTANO FOLLIA.
Perché il tempo? E qual è la struttura del ritmo da cui di norma si deduce il tempo della terra isolata, della fede nel divenire degli essenti, del loro essere niente, quindi della contraddizione e della follia?Il tempo nell'interpretazione della fede della terra isolata è il processo di generazione e sviluppo degli enti dal nulla, quindi del loro cessare e finire nel nulla da cui provengono. Il tempo è quindi l'ambito in cui la contraddizione della volontà ha l'apparenza dell'incontrovertibile. Il tempo così è possibilità, ma possibilità dell'impossibile, perché essere e nulla sono contraddittori, essere e nulla sono impossibili, " insieme", "prima" e nel "futuro". Ora, l'immagine del tempo e del divenire della volontà appare come la carcassa del ritmo, il ricordo distorto e patogeno di ciò che resta dell'oblio del ritmo dell'essere. Il ritmo dell'apparire degli essenti, è l'altro dal tempo della terra isolata, l'inconscio che essa ignora; è il ritmo dell'apparire e scomparire degli eterni dalla dimensione dell'apparire - lo stato di coscienza dell'autocoscienza dell'Io del destino, dello stare della verità il cui essere è la necessità della manifestazione che procede nei cerchi dell'apparire verso la Gloria del Tutto. Il Mistico è l'identità delle differenze con il Pensiero della Gloria.Il ritmo, dunque, che è scansione, è la traccia della struttura del divenire del cerchio dell'apparire del destino, dell'essente: l'accadere della 'mia' sete e il piacere che ne deriva dal bere l'acqua fresca di questa fonte, il cielo che dà il suo spettacolo del meriggio, lo sguardo del passante, la formica nera sulla pietra nera nella notte nera nel deserto, tutto l'accadere, l'accadere del Tutto, ogni volta è ritmo di essenti che appaiono e scompaiono nel cerchio dell'apparire dell'essere. Il nascere il morire il godere il soffrire, tutto è eternamente conservato e compiuto nel fondamento dell'essere.Il ritmo è l'essenza stessa del teatro. Non il tempo, giacché il teatro si sospende al di sopra della temporalità della terra isolata, pur integrato in essa, contraddittoriamente, e rispecchia ad essa l'eternità dell'apparire e dello scomparire - teatro, questo ancora da venire, ma i cui tratti germogliano nei linguaggi della terra isolata, dove se la follia dispiega il suo dominio, il destino della necessità si fa strada nelle fenditure che il pensiero apre per accoglierlo.Il luogo teatrale è ek-stasis del luogo ontologico costituito dalla persuasione che gli enti, l'essere sia divenire come venire dal nulla e ritornarvi. Ma in quanto ek-stasis di questa persuasione ne è la negazione, perché la stessa persuasione è autocontraddittoria, e la sua ek-stasis ne mostra il lamento distorto, smascherandolo. In quanto il teatro smaschera, nella sua effettualità esso è risonante dell'originario, e ciò perché mostra le contraddizioni della persuasione fondamentale che vuole il nulla piuttosto che l'essere. Nel teatro si mostra che cosa è la volontà dell'uomo della terra isolata: follia, monstruum, delirio.La verità nella sua definizione ultima è l'incontrovertibile perché inconfutabile, giacché ogni sua confutazione è autocontraddittoria. Se il destino è l'eternità dell'essente che giunge alla sua manifestazione, la verità della totalità dell'essente; allora il destino non può essere contraddetto da niente che non risulti autocontraddittorio. Il destino è apertura infinita come infinita espansione dell'originario stato in cui tutto l'essente è in quanto necessariamente deve essere nella sua infinita inesauribile manifestazione. Tutto l'accadere, tutto il 'passare', il 'presente', l''ad-venire', il 'futuro', di ogni evento, di ogni essente, sono l'Io del destino.Così l'essere come destino del Tutto non può essere contraddetto dal nulla, che è autocontraddittorio; così nessun essente è avvolto, giace, viene o è diretto verso il nulla, semplicemente perché il nulla non è, neanche per 'volontà' di un dio.Ma la non-verità esiste? Essa è un essente, quindi un eterno, ma compiuto e oltrepassato nella verità del destino; la stessa terra isolata, destinata al tramonto attende il suo compimento nella dimensione dell'apparire, e la non-verità è già oltrepassata dalla Gioia. Nella non-verità l'isolamento degli enti e la persuasione del limite del mortale e della 'vita', vengono interpretati come la soglia che separa l'essere dal nulla. Ma il limite è la negazione che si toglie all'apparire del legame degli essenti, all'apparire dell' eterno che manifesta nelle pieghe della temporalità il ritmo del cerchio del destino che sopraggiunge nel suo abbraccio infinito."Il dramma è la trappola con la quale accalappierò la coscienza del re". Nel teatro accade verità nelle sembianze della non-verità, perché lo spirito dell'uomo oltrepassi la propria isolata individualità nello smascheramento della propria alienazione dalla sua autentica realizzazione. Nel teatro quindi l'uomo contempla le maschere dell'isolamento nel cum-munus della costellazione che gli appartiene, rispecchiando la totalità del suo esserci. Ma questo sguardo è sapiente, e sfugge ai più.S'è detto che l'immagine del divenire e del tempo della Terra isolata costituiscono la piega, nell'apparire dell'essente, in cui accade la non-verità. Ora, non c'è nell'orizzonte del mortale niente di più spaventosamente sublime della non-verità, e cioè l'orrore della morte e del nulla, del morire o del nulla che incombono nella sua coscienza e che ne suscita l'angoscia. Dell'abisso di questo sogno è in-formato il tempo che è proprio l'accadere della non-verità, il terribile sogno nel quale il mortale crede incontrovertibilmente di morire e uccidere, di amare e raggiungere scopi: il tempo è il regno del delirio folle del mortale in preda ai suoi incubi.Il teatro nega il tempo e negandolo lo conserva e oltrepassa, poiché il teatro è ritmo, il rovescio sotterraneo della non-verità, l'infinito fiume sotterraneo che romba dall'essere.Ogni affermazione, ogni posizione, come tale nega, in quanto determinazione, ciò ch'esso non è. Ma a sua volta, in quanto tale, e nel presupposto del succedere degli enti o degli e(ve)nti, essa è negata necessariamente da altre determinazioni - ma questo non è il divenire, è illusione di divenire - . Giacché ogni posizione è originariamente e strutturalmente la totalità delle sue costellazioni posizionali, e queste le costellazioni della totalità dell'apparire dell'essente. La presentazione-rappresentazione è il ritmo della dialettica illusoria del divenire-tempo, così come tale è l'implicazione della sua confutazione, la negazione stessa della rappresentabilità. Il teatro - il luogo-da cui-si guarda - è il luogo dell'autocoscienza del ritmo del Tutto e lo spazio metafisico che la volontà crede di spalancare per accedere alla verità. Ma ciò che in esso si spalanca è solo il collasso nel chaos della non-verità. Nello spazio teatrale la dialettica del divenire niente dell'essente si compie perché se ne smaschera la rappresentabilità, quindi la dicibilità, l'identità.Il ritmo si s-catena, letteralmente, dallo smascheramento della temporalità, dalla sua negazione - dal negarsi della temporalità, siccome contraddizione.Presupposto della comprensione dell'essenza del teatro è la sua fenomenologia: la vita della presenza viva dell'attore e l'evento dello spettacolo nello spazio spirituale aperto nel pubblico. Questo in-sieme, nei suoi scarti, correlazioni, articola la forma ek-statica di una apertura della verità del destino, in una fenditura che si apre nella non-verità. Lo sfondo del Pensiero è l'ospite dell'apparire di questa dimensione ek-statica, quivi il ritmo teatrico de-canta il de-stino.Il Pensiero è l'essere, e l'essere è ritmo, luce autocosciente che respira l'essente, si dà in quanto è l'essente - in altre parole il molteplice è il Tutto in quanto l'essere che è il Tutto consiste della immediatezza concreta del suo manifestarsi. Tale è il ritmo: l'essente è. Flusso infinito di eterni che appaiono e scompaiono dalla "volta dell'apparire", compiendosi.Ora, se il teatro è la rappresentazione della persuasione del divenire degli enti in quanto gli enti sono un non-niente e dunque niente, per la loro evenemenziale caducità; allora il teatro è non-verità. Ma come ogni ars, téchne, il teatro e linguaggio e pensiero e dal suo sottosuolo preme la luce della verità. L'inconscio del mortale che vuole il nulla, che dalla verità è negato, de-lira la propria Gioia tra le pieghe del sogno della vita di quello stesso mortale che pensa di essere il nulla - il folle.Sviluppando: rappresentazione, il rappresentare è ri-presentare e come tale ri-specchiare. Nel rappresentare si ripete rispecchiata la struttura delle relazioni interne dell'essente. Ma vi si rispecchiano le relazioni dell'essente della Terra isolata, del mortale e della sua fede nel nulla di tutte le cose, quindi la volontà della non-verità. Ma rappresentare non è replicare, ripetere l''oggetto' che si presenta. L'essente che appare nella sua concretezza, appare come costellazione transfinitamente complessa di essenti i quali non possono essere scissi, slegati, alienati tra loro. Perciò stesso non esistono 'oggetti' ma essenti correlati, legati insieme, costitutivi relazionalmente della costellazione che li configura. Nel teatro - dentro il guardare dal luogo da cui si guarda - il rappresentarsi della volontà della non-verità è come tale autonegazione. Essendo autonegazione smaschera la propria immagine, e libera alla dimensione infinita dell'Aperto, a ciò che nel suo stesso linguaggio lirico si fa strada, a tratti, a cenni. I segni in cui si mostra la verità sono gli stessi, qui, attraverso cui la non-verità credendosi verità si mostra.Attore e scena, cioè spazio e azione, testo sono stati di una medesima forza. Il respiro che tale forza emette s-catena il pubblico ( il prigioniero della caverna platonica ) e lo obbliga a guardare il cerchio di ogni destino come il suo, lo obbliga ad essere non più se stesso, la propria finzione reale, ma lo specchio che riflette l'essente della non-verità, il niente significante che egli è, la volontà che crede. Nel teatro si contempla e sperimenta la vertigine della dissoluzione della non-verità, per l'irruzione dell'inconscio della fede in ciò che si presume reale e vero - tale è il dionisiaco come anima della caotizzazione. Il teatro, per un istante, indica che siamo l'errore e l'errare della volontà; per un istante, che viene inghiottito subito dal sonno della volontà.Dunque: il cerchio dell'apparire e il 'cerchio' della rappresentazione. Il cerchio dell'apparire è im-mediatezza concreta dell'essente; il 'cerchio' della rappresentazione ne è il surrogato mediato come ars, téchne. Si può anche dire che ne sia il suo travisamento. Ma come non-verità il tra-visamento, quindi l'errore, è necessario. Lo spazio teatrico consiste essenzialmente nello smascherare il travisamento della verità, ma è dentro la non-verità che avviene lo smascheramento, che contraddittoriamente si contrappone alla sua stessa possibilità. Necessariamente, allora, ogni téchne è aporetica, essendo autocontraddittoria, e per questo smascherandosi come non-verità. Il rimedio all'angoscia che è la téchne del teatro è il manifestarsi incontrovertibile della controvertibilità dell'epistème, lo specchio che riflette il cortocircuito della fede e della volontà - mostra la non verità del mortale e dei suoi dei, è il discernimento della Follia.Ma è 'possibile' un teatro del destino, allora? Un teatro della verità? Esso, forse, non è possibile, perché la volontà non può attingervi. Tuttavia in qualche modo esso è già nell'essente della maschera ek-statica dell'attore, o piuttosto nel suo rovescio, essendo l'attore già funzione del nichilismo.
CAPITOLO TERZO.IL RISO DEL CLOWN.
Nelle maschere dell'attore si mostra ciò che il mortale non sa di essere, si mostra il nulla significativo che rimanda al suo contradditorio, al suo rovesciamento. Ma la distruzione della fede, della convinzione che l'essere coesista con il nulla e quindi il superamento del nichilismo nelle sue molteplici forme, il senso ultimo del pensiero, è un impossibile. Tuttavia nell'atletica dell'attore si intravvedono i tratti della Gioia. La Gioia è l'inconscio della sua negazione autocontraddittoria: la volontà di potenza, la quale è non-verità, errore, errare. L'azione, l'agire così come si configurano nell'Occidente e nella sua storia sono volontà di potenza, persuasione omicida che il nulla coincida con il mondo e i mortali, che il divenire stesso sia volontà di potenza, che l'uomo ne sia espressione, così come i suoi dei, abitatori privilegiati dell'eternità: la maschera dell'attore è la parodia di tutto questo, quindi è lo specchio del sogno della volontà di potenza, lo è 'antropologicamente', lo è anche in quanto metafora antropo-teologica, come nel grandioso topos barocco del theatrum mundi così bene esplicitato da Calderón e dalla anamorfosi che Pasolini ne trasse.Di questo formidabile sogno la Gioia è il rovescio e la verità.L'agire dell'attore ( umanità ) è alle prese con l'impossibile, Dio è il suo mezzo, il mezzo della 'sua' volontà di potenza, che è anche fine. Ma l'attore, caricatura della marionetta umana della volontà, è la parodia del sistema del mondo, che galleggia sul nulla della volontà di volontà.Correlativamente, il contenuto dell'attore, dell'immagine del mortale, il suo 'personaggio' profondo, il suo clown, sono l'immagine della costante ripetizione dell'impotenza della volontà che fonda se stessa nella fede nel divenir dal nulla degli enti, nel divenir altro, nell'oggetto assoggettabile dalla volontà omicida della fede che dice che la creatura, per sé, nihil est.Allora, il teatro è l'inquietante specchio del nichilismo ontoteologico portato al limite della sua espressività. Si presenta come la tecnica di una falsa autocoscienza e della persuasione omicida del mortale. L'attore ne è la supermarionetta. Ed in ultimo, l'Apparato tecnoscientifico, politico, finanziario, sono a loro volta lo spettacolo che la volontà allestisce e che si smaschera autoconfutandosi, la gigantesca messinscena della volontà di potenza che abbaglia per render ciechi i mortali.Così, la 'realtà' in cui il mortale gioca il suo riconoscimento metafisico da parte dell'Apparato, consiste nell'essere un non-niente, e come tale il burattino della Follia. Se un significare positivo del teatro esiste esso è tutto qui: mostrare la Follia. E se il teatro è il principale alleato dell'Apparato, o uno di essi, ne è anche il nemico, proprio in quanto parte del senso complessivo del 'rimedio' che l'uno e l'altro sono, rimedio appunto all'angoscia del dolore e della morte. Né l'uno né l'altro possono non contraddirsi, essendo impossibili, contraddittori, omicidi, folli.Riassumendo: la 'realtà' in cui il 'mortale' è metafisicamente riconosciuto dall'Apparato come il non-niente da utilizzare per affermare un dominio assoluto sull'essente, diventa l'oggetto privilegiato del teatro in cui la Follia è rappresentata come l'essenza stessa del mortale, con i suoi miti, le sue pulsioni, le sue istanze, il suo dolore, il suo piacere, l'amore, l'odio, la morte, il trionfo, il fallimento ecc. Il teatro si costituisce come la rappresentazione del divenire che la volontà di potenza e di dominio del mortale, la sua suprema Follia, credono di esercitare sull'immagine che il mortale stesso sogna di essere. Così il mortale si identifica con il sogno metafisico del suo esserci: un non-niente e in definitiva un niente.Ora, isolando gli Immutabili - Dio, gli dèi ecc. - il mortale riesce a dominarli rovesciando la loro potenza che lo soggiogava, perché la potenza del suo sogno li rimpiazza con l'Apparato scientifico-tecnologico, la tecnica economico-politica, che aspirano al dominio planetario.Ma altra è la verità del destino dell'essente: " Tutto è eterno. Non nel senso tradizionale, per cui è eterno il mondo nel suo insieme, o eterni sono gli elementi costitutivi della materia, o la legge della realtà, o la realtà in quanto conosciuta da una mente divina, o Dio in quanto separato dalla temporalità del mondo. Non in questo senso. 'Tutto è eterno' significa che ogni momento della realtà è - ossia non esce e non ritorna nel nulla; significa che anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si è soliti riservare a Dio. Eterno ogni nostro sentimento e pensiero, ogni forma e sfumatura del mondo, ogni gesto degli uomini. E anche tutto ciò che appare in ogni giorno e in ogni istante: il primo fuoco acceso dall'uomo, il pianto di Gesù appena nato, l'oscillare della lampada davanti agli occhi di Galileo, Hiroshima viva e il suo cadavere. Eterni ogni esperienza e ogni istante del mondo, con tutti i contenuti che stanno nell'istante, eterna la coscienza che vede le cose e la loro eternità e vede la follia della persuasione che le cose escano dal niente e vi ritornino - la follia che domina il mondo. Eterna anche questa follia; e il suo esser già da sempre oltrepassata nella verità della Gioia " ( E. Severino, La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire, Rizzoli, Milano 1989, cap. XXXI, 1. ).Inevitabilmente: l'inconscio della rappresentazione, che ne è il rovescio, indica l'irrappresentabile eternità del Tutto. Come la rappresentazione rispecchia l'essenza del divenire, il suo inconscio, celante il ritmo vivo del Tutto, contiene l'inaudito, l'eternità di ogni cosa. L'attore si moltiplica e trasmuta come il divenire, ne incarna l'inganno, ma in profondità l'attore è il riflesso dell'eterno di ogni realtà nell'infinità del Tutto, reggendone lo specchio.Lo spettro delle maschere dell'attore articola la simbolizzazione dell'eterno ritorno degli enti: ogni essente ri-appare nella scrittura che l'attore traccia nel sogno dello spaziotempo scenico, sogno nel sogno della 'realtà' del divenire che le cose vengano dal nulla e siano nulla: l'attore compie il sogno della Follia.L'attore, il clown metafisico, è il racconto vivente della non-verità che di necessità rimanda al suo inconscio. Questo è l'infinito spettacolo della eternità dell'essente, anche del dolore e della Follia "già da sempre" oltrepassati "nella verità della Gioia". Ma il giogo cui è sottoposto il clown e la sua multipla maschera attoriale, è sconosciuto a lui stesso, nel senso che attore e théatron ignorano, cioè non vedono se stessi, con buona pace di Diderot e di M. Chekov. La presunzione dello sguardo dall'alto è la prerogativa del Sé, ma il sé che si guarda agire nelle maschere è solo la mistificazione narcisistica dell'io empirico, dell'ego possente che arma la sua parodia del sapersi il Sé autocosciente. Tuttavia, in un certo senso all'attorialità fa bene credersi l'autocoscienza illuminata dell'esistente, e al cosiddetto regista presumere di concepire uno stato di cose sotto forma di spettacolo, mise-en-scène, che laceri le pareti della coscienza ignorante e periferica del pubblico per consentire all'umanità di accedere al sapere, al sapere che cos'è la vita, il mondo, il destino, la morte ecc.; ma soprattutto sapere chi è la sovrana narcisistica struttura che articola il sapere, presunto, teatrico, teatrabile teatrantesi che scaturisce, monstruum-menstruum, dall'esserci registico-attorico d'ineffabile presenza. Per il teatro, cioè all'interno dei feedback attivi al suo interno, è impossibile essere vero, autentico, cioè incontrovertibile, sapiente, perché l'essere teatrico è protesico, o ancillare, il teatro insomma è la necessità di un accidente - il gioco dei bambini. Inutile in sé, ma indispensabile per l'infante, che se non gioca muore allo spirito, se non al corpo. Così le morti spirituali generate nella società, che come tale è letale, con i suoi feedback patogeni, si rovesciano nelle figurazioni teatriche, perché il luogo-da cui-si guarda è il territorio della coscienza che si ritrova davanti a se stessa, ma senza riconoscersi, ovviamente, perché il teatrico stesso specchia deformazioni, anamorfosi, che l'io non discerne. Ad un'altezza che il teatrico stesso però non scorge, là dove abita il Senso, l'essere di quello sguardo caricaturale, dall'alto, che il teatrico è, si accenna una via, getta una voce, una specie di richiamo, si mostra una traccia - ma niente di più. Il teatro smaschera la follia che noi abitiamo, come abitatori del tempo che crediamo scorra sul nulla, ma ignorando ciò che fa. Doppia stoltezza del teatro, doppia stoltezza della parodia di filosofo che l'attore narciso è: l'uno e l'altro si muovono e insistono nella dimensione dell'ek-statico, perché si appaiono scaturiti dalla luce stessa del Senso, e come artefici del Canto che l'arte in loro s-catenerebbe, essi credono di creare mondi d'illuminazione poetica, ma s'ingannano. La loro trappola è la persuasione di mediare la verità - certo, qualunque verità il tempo trasporti e poi getti via o ricicli, dalla grande discarica della storia - in realtà essi mediano solo la non-verità. Molti lo fanno malissimo. Pochissimi riescono a farlo decentemente.Se qualcosa nel suo esser l'essente proprio è autenticità, lo è in virtù della luce che la totalità di ciò che è, in quanto Gioia, getta su di essa nella philìa del Tutto, il legame che fonda l'identità di ogni essente eterno. Lo stesso essente, visto nella notte spirituale che lo vuole un non-nulla 'di passaggio', e quindi un niente, isolato squartato e scisso dalla compagnia dell'essere, quell'essente ucciso nel suo logos nichilista che lo vuole mortale, è lo stesso che l'arte - tutta l'arte - mostra, indica, dona. Il teatrico se ne nutre, deve cannibalizzarlo, ne vale della sua vera non-verità. Ma è qui che si può render visibile quella sapienza di luce inaudita che attende la Manifestazione che deve liberare dalla follia che noi stessi siamo e sulla quale non abbiamo, da soli, alcun potere.manifesta. Ma questo evento, se mai è accaduto, se mai deve accadere, è in sé negazione di sé, perché la verità, se è tale, non può essere contemplata come ciò-che-sta-innanzi, non Gegenstand, non substantia, non Cosa, è la verità, che si possa guardare da un punto di vista, da una torre d'osservazione, non si può vedere da un theatron. Accanto alla verità non si possono disporre tassonomie predicative, perché essa è impredicabile essendo la condizione stessa di possibilità della predicazione, che tuttavia si nega come tale perché contraddittoria alla luce della verità stessa dell'essente. I valori di verità, ciò che può dirsi vero o falso d'alcunché, sono già originariamente, cioè trascendentalmente, negati dall'essere della totalità della manifestazione che è la verità: la Gioia.Il theatrum allestito dall'amore che si cura sapientemente dell'essente viene quindi necessariamente annullato, negato, tolto dal momento che ciò che vi irrompe in quanto irrappresentabile, inteatrabile, ne è la negazione incontrovertibile.Se mai teatro ha raccontato il vero, quello si è estinto nell'autocoscienza della verità che ospitò. E noi non ne abbiamo notizia.Jerzy Grotowski: "Un giorno un pagano chiese a Teofilo di Antiochia: <>, ed egli rispose: <>. Esaminiamo per ora solo la prima parte di questa frase: 'il tuo uomo'. Questa è una terminologia che va al di là delle concezioni religiose. Penso che con questo Teofilo di Antiochia abbia toccato qualcosa di fondamentale nella vita dell'uomo. Mostrami il tuo uomo - è, nello stesso tempo, tu - 'il tuo uomo' - e non-tu come immagine, come maschera per gli altri. Ѐ il tu-irripetibile, individuale, tu nella totalità della tua natura: tu carnale, tu nudo. E nello stesso tempo, è il tu che incarna tutti gli altri, tutti gli esseri, tutta la storia"( Il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski 1959-1969, testi e materiali di Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen, con uno scritto di Eugenio Barba, a cura di Ludwik Flaszen, Carla Pollastrelli e Renata Molinari, La Casa Usher, Firenze 2007, p. 160 ).In questo testo di Grotowski l'autenticità, senza gergo, si apre una fenditura nella dimensione della non-verità della follia e ne destruttura gli schemi. Commentiamolo degnamente.Attestandoci al limite spirituale che Grotowski impone alla sua interpretazione dell'aneddoto, 'il tuo uomo' è l'identità profonda di ciò che si è, correlata al, ma distinta dall'io empirico, l'ego, la maschera appunto che negando il proprio Sé che è l'Identico, - e lo nega perseguendo la falsa identità dei desideri e della volontà di volontà, nell'angoscia della morte - , si autonega contraddicendosi, logicamente e ontologicamente. L' ego-immagine che non è il Sé, che nella dimensione contrastante dell'io empirico e del suo volere non sa riconoscersi come il 'tuo uomo', ne è la negazione, ma tale negazione negando la propria identità e credendo di 'possederla' nell'immagine egoica che non può incarnare se stessa perché impossibilitata a incarnare il Sé che incarna tutti, tutti gli altri, tutta la storia, si contraddice e perciò è non-verità, è follia. In altre parole, la separazione di ciò che è dal Tutto ciò che è - la stessa separazione di ciò che dal suo è - la scissione, squartamento dell'essente dal suo essere sé, e del 'mio uomo' dall'essere uomo nell'essere della totalità della vita, della manifestazione dell'Intero, persino, quindi, l'alienare Dio e uomo, ontoteandrologicamente, è omicida - nei riguardi e di Dio e dell'uomo, che se non sono Uno, non sono che follia e contraddizione.Allora "il tu che incarna tutti gli altri, tutti gli esseri, tutta la storia" sei 'tu', sono 'io' nella misura della verità del Sé, che ospite, ci ha spogliati, liberati dal giogo della scissione, della separazione, del divenir altro, dalla persuasione che l'essente sia un niente, provvisoriamente esistente. L'esser sé dell'essente, l'esser Sé, cioè l'essere dell'Io del destino, come lo indica Severino, è l'Identico della Gioia.Ma qui entriamo nel territorio della verità, territorio che è proibito e precluso al teatro così com'è, ma non alla sua essenza ancora da venire.