Metafisica I
INTRODUZIONE.
Non è problema che le cose siano, che il mondo, la realtà, il Tutto siano. È problema chi "io" sia e che "io" sia. Problema perché il mito dell'Io trascendentale, oggetto filosofico, che si relaziona ad una entità mentale che sarebbe l'io empirico, quello che io propriamente credo di essere, la mente in relazione con il mondo a cui affido il mio essere al mondo, questo "io", con il suo romanzo personale, la molteplicità unificabile della sua fenomenologia, è prima che "mistero" il veicolo di un essere del mistero. Ma "mistero" vogliamo qui intenderlo in una accezione particolare, come contrazione del latino ministerium(1), quindi conferendo all'accezione della parola il suo significato funzionale. Allora il significato dell'io empirico assume una valenza strumentale, svolge una funzione mediatrice o meglio, esprime non se stesso ma altro. La sostanza empirica dell' io, il cosiddetto soggetto empirico, posto al centro dell'esistenza da Kierkegaard e dalla tradizione cristiana tutta(2), ma collocato in uno scenario cosmico dagli stoici prima e da Platone-Socrate all'inizio del pensiero occidentale, è una porta, per così dire, il cerimoniere, il portiere, cioè colui il quale veicola, porta oltre - come il Porter-clown del Macbeth shakespeariano(3) - e che sta al limite di una molteplicità di dimensioni, di regioni, se ci si passa la metafora - ma d'altra parte, dice Plotino, <>(4). Lo stare dell'io empirico è stare nello sfondo del Pensiero, del Cosciente, che è altro dall'io empirico, che si identifica con quel Sé del Conosci te stesso delfico e che fu la voce del daimon socratico, il richiamo, la traccia dell'altro che è dove l'io non sta ancora. È il segreto proprio della luce dell'ente, dell'essente nella totalità di ciò che è, la stanza del labirinto dove si transita, ma non si deve sostare. L'io è un ministero che come tale cessa quando il suo ruolo è compiuto. Ma, se compiuta è la funzione, essa non svanisce nel nulla, ché tale io empirico non è un nulla che sorgerebbe alla luce dell'essere per poi dissolversi. Il suo stare, il suo epìsthamai è il senso stesso del suo apparire, della necessità del suo apparire al limite, sempre, dei suoi due crepuscoli, la sua aurora e il suo tramonto. Cosicché è mera ingenuità rifuggire dalla consapevolezza della necessità dell'apparire del nostro io empirico con il suo Bildungsroman nell'oceano indefinitamente sconfinato della totalità dell'essente, nella temporalità del suo apparire, nella persuasione del suo dover morire - l'io empirico è l'essenza angosciata del mortale e il suo clown la luce della sua coscienza daimonica profonda - nella dimensione orizzontale, historica, della sua immensa volontà di potenza, della sua fede e del suo errare.Ora, se da questa piccola fenomenologia dell'io si parte, da essa bisogna ricominciare ogni volta, perché è nell'io empirico che si trova l'uscita dall'io empirico. Ma il rischio di restare prigionieri dello stare epistemico dell'esserci abbarbicato al suo orizzonte ontico è inevitabile. E la dialettica non salva. Dunque come è possibile individuare l'accesso alla liberazione dall'io, il luogo che liberi dallo stare illusorio dell'unità psichica che noi stessi siamo per accedere alla beatitudine di una coscienza liberata al Sé, come trascendere e oltrepassare il tempo di una identità avventizia, di un soggetto che crede di essere reale, e che in effetti cioè in atto, lo è, ma nella persuasione di essere un nulla che si affaccia all'essere e che dentro il desiderio struggente di non voler morire, muore in se stesso nella nichilistica volontà/voluttà di essere nulla (nulla che si nasconde nella "misura" del proprio essere "io", negazione, ma determinazione del limite(5))? Il nostro percorso è una ricerca, vissuta attraverso domande alle quali si danno risposte e che si svolgerà per sinusoidi labirintiche, esplorazioni eccentriche, tutte tese a richiamare, echeggiare quello che Stanislaw Ignacy Witkiewicz chiamava il Brivido Metafisico per il Mistero dell'Esistenza(6).Nella Prima parte ci occuperemo di delineare una mappatura del pensiero filosofico, mistico, artistico sull'esperienza e il concetto di divenire. Quindi su quello di trascendenza. La Seconda parte sarà dedicata alla costruzione di una cartografia della liberazione, in cui si tenterà l'elaborazione di un metodo per realizzare la beatitudine filosofica, quello amor dei intellectualis che Spinoza decanta quale esito esistenziale dell'essere al mondo. La Terza parte è costituita da un saggio, Teatro filosofico che attraverso una ridefinizione dell'arte del teatro in chiave filosofica cerca di determinare un nuovo senso sia del teatro che della filosofia.
NOTE ALL'INTRODUZIONE.
(1)Cf. R. Guénon, Considerazioni sulla via iniziatica, trad. it. RL Gruppo Editoriale, Santarcangeli di R. (RN), pp. 179-180.
(2)Per una panoramica specifica e in chiave cristiana teologica e drammatica si veda H. U. von Balthasar, Introduzione al dramma. Teodrammatica 1, trad. it. Jaca Book, Milano 1980, pp. 467 e ssgg.
(3)W. Shakespeare, Macbeth, II, 3.
(4)Cf. M. Cacciari, L'Angelo necessario, Adelphi, Milano 2008, p. 12.
(5)Cf. H. U. von Balthasar, op. cit., pp. 479 e ssgg.
(6)S. I. Witkiewicz, Introduzione alla teoria della Forma pura nel teatro e altri saggi di teoria critica, trad. it. Bulzoni, Roma 1988, pp. 141-160.
PARTE PRIMA.CAPITOLO I. CHAOS E DIVENIRE.
I.1. Chaos.La prima e prefilosofica esperienza, il vissuto più originario e ancipite che l'uomo abbia potuto inscrivere nella propria carne e nella propria mente è quella del divenire e del mutamento, giacché divenire e mutamento è la sua stessa vita, i processi di <>(1), per dirla con Shakespeare, che portano all'alternanza e oscillazione di piacere e dolore, gioia e tristezza, nascita e morte, il movimento incessante dei <>(2) . E correlato all'esperienza della vertigine del divenire - da qui il vero thauma - è il nome oscuro e rimosso del Chaos. La nozione più arcaica, che è decisamente la forma più perturbante che l'intelligenza prefilosofica umana abbia potuto elaborare, almeno in contesto greco arcaico. Il Chaos, l'antico <> - dice Ovidio(3) - si presenta come il movimento che suscita e che è il possibile, al quale, sul piano umano e della sua capacità di comprensione non è ascrivibile alcuna salda certezza, essendo puro spalancamento, voragine, abisso, non luogo fisico, ma stato pericolosamente incombente e che perciò stesso richiede di essere soggiogato e controllato, essendo pur il custode di una impescrutabile Necessità. Esso quindi è anche il "luogo" d'origine degli dèi e della stessa totalità dell'esistente essendone anche il luogo che accoglierà nuovamente gli "immortali"(4). Ma perché associare il concetto e l'esperienza del divenire, del mutamento, del movimento, cui ogni cosa è soggetta, al Chaos? E che cosa significa propriamente Chaos? Partiamo opportunamente dal mito e facciamoci accompagnare, per questo piccolo viaggio da Friedrich Willhelm Joseph von Schelling, che ne seppe ricostruire la genesi nelle sue Lezioni sulla filosofia della mitologia. La ventiseiesima lezione considera il rapporto di liberazione raggiunto dalla coscienza ellenica arcaica dal suo stesso processo di costituzione. In virtù di questa liberazione ed emancipazione la mitologia greca diventa universale come sistema coerente e conchiuso in sé(5). Esiodo con la sua Teogonia ne è il testimone filosofico più completo giacché in lui quel compimento di comprensione del processo della coscienza ellenica guarda al suo inizio e al suo svolgersi: <<[...] la coscienza mitologica, giunta alla fine, dovette anche giungere a chiarezza riguardo al suo inizio. Qui, dove essa si sentì per la prima volta libera, le si sciolse l'incantesimo (ed infatti fu una sorta di fascinazione, lo stato in cui si trovò la coscienza durante l'intero processo), ed insieme le si rivelò anche tutta la trama del destino a cui era stata sottomessa nella prima produzione mitologica, le fu trasparente l'intero cammino dall'inizio alla fine>>(6). Quando la coscienza - continua Schelling - giunta alla fine <>(7). La coscienza prefilosofica attinge ad un originario abisso, unità ancipite del divino, che per Schelling è il risultato in atto di una interpretazione. L'interpretazione del processo stesso attraverso cui la coscienza attinge alla propria genesi. Ma andiamo oltre. Spiega il filosofo: <>(8). Ora, dice Schelling che, se il concetto di Caos indicasse l'assenza di ordine, la confusione, dunque, il puro vuoto o in particolare il puro potenziale in quanto esso si oppone all'attuale, al già determinato, caratterizzato, per cui dovrebbe poter indicare quella qualità mancante, la forma, che è appunto una mancanza nello stato di caos iniziale; allora, in Platone, ad esempio, nel Timeo il concetto di Caos dovrebbe comparire laddove si parla della madre e del sostrato di tutto il sensibile, che non è definita né aria, né fuoco, né acqua, ma che è totalmente invisibile e senza figura(9) e ciò non accade. Ovidio ne Le metamorfosi utilizza il termine come sinonimo di confusione elementare che precede l'ordine del mondo - ma vedremo come lo stesso poeta latino ne dia un'altra versione nei Fasti - mentre invece <>(10). A questo punto il filosofo si volge a esaminare il senso che il Caos impersona nella figura di Giano, il dio bifronte italico. Alla luce della sua dottrina delle tre potenze(11) l'essenza di Caos è ricostruita come non un'unità fisica puramente materiale, ma un'unità metafisica di potenze spirituali; tuttavia - prosegue Schelling - tantomeno esso è un'unità di elementi indefinitamente molteplici (come comunemente è inteso il Caos materiale) bensì esso è un'unità determinata d un numero parimenti determinato e assolutamente chiuso di potenze(12). Come dire che il Caos è un insieme "limitato" di possibilità già in qualche modo stabilite, seppure "indefinitamente" (non sfuggirà al lettore la proliferazione di contraddizioni che si cercherà di risolvere). Ora, come giunge Schelling ad attribuire al Giano italico l'identità del Caos greco? Innanzi tutto Ovidio, nei Fasti, come ricordato, conosce questa identità; poi, seguendo il ragionamente filosofico di Schelling, questo "dio" degli dèi, è dio del tempo di cui il doppio volto e la luna crescente sono simboli(13). Inoltre in quanto dio delle chiusure e delle aperture, dio che presiede alle svolte, ai crocicchi, ai passaggi, ed in base alla ricostruzione etimologica riferita da Cicerone ed emendata dal filosofo tedesco, per il quale Janus viene da Heanus, derivazione da hio che ha lo stesso significato del chao greco, l'antico Caos/Giano nomina l'essenza stessa del tempo come passato, presente e futuro in generale, come puro stato individuabile nello sfuggente istante del tempo che è stato di chiusura e spalancamento, possibilità, in una parola(14). In quanto dio è l'origine stessa degli altri dèi, della totalità del pantheon formale, rappresentandone altresì la Necessità generatrice e dissolutrice(15). In conclusione il Caos/Giano è la temporalità metafisica nella sua indiscernibile e terrorizzante imprevedibilità, dal punto di vista mortale; nella sua Necessità vista dalla dimensione del suo essere ancipite. Ma oltre l'orizzonte speculativo schellinghiano, entro il quale ci siamo mossi infedelmente, il concetto di Caos o Chaos, come sarebbe più corretto trascriverlo, combattuto da Aristotele che concepiva l'eternità del mondo in senso cosmologico(16); utilizzato da Kant per indicare lo stato originario della materia che avrebbe poi generato i mondi(17); tematizzato da Nietzsche per indicare l'essenza stessa dell'essere come <>, quale realtà ontologica priva di razionalità e <>(18); ritorna filosoficamente interpretato in un ciclo di lezioni di Emanuele Severino del 1968(19), ma connesso al suo concetto "opposto", kosmos. Scrive il filosofo: <>(20). Solidale con l'esegesi heideggeriana del vocabolario filosofico greco, che del resto segue la lezione di Hegel cui si rifanno sostanzialmente le esegesi di Nietzsche, Bergson, Stenzel, Jaeger, Bodrero, Joel, Severino ripercorre il significato del concetto esiodeo di Chaos dal quale si generano Gaia ed Eros che a loro volta generano gli dèi(21): <>(22). Ma Severino, ripercorrendo la radice indoeuropea della parola, che è cha o gha presente nel latino di hiatus, intervallo, apertura, chiarisce che chaos non indica tanto il disordine, la mescolanza, quanto piuttosto l'apertura di tutte le aperture: <>(23). Dunque, in prima battuta l'assonanza con l'interpretazione di Schelling o di Dumézil è totale, ma anche più chiara la definizione severiniana. Se poi la si staglia nello scenario del suo lavoro filosofico che dal 1958 ad oggi egli va elaborando, il concetto assume una configurazione che mostra il significato dell'Intero, ovvero del fondamento come struttura originaria della totalità dell'essente(24), nel suo nome prefilosofico più antico. Sul concetto di kosmos, suo complemento opposto torneremo tra poco, poiché all'interno di questa tematizzazione del senso di Chaos come apertura di ogni possibile, apertura delle aperture, totalità spalancata (ma, direbbe Schelling, ancora chiusa in se stessa), dobbiamo integrare quello del senso greco del divenire che informa tutto il pensiero occidentale e che si trova in contraddizione con la tematizzazione speculativa di Chaos ed in contraddizione con se stesso.I.2. Divenire.La dimensione del mutamento è l'evidenza per eccellenza. A questa è impossibile opporre apparentemente qualsiasi argomento che non si confuti da sé, cosicché il mutamento, ovvero il divenire è inesorabilmente stato canonizzato dalla coscienza prefilosofica e filosofica come il passaggio dal nulla all'essere e dall'essere al nulla nella sua più integrale e totale onnipervasiva estensione ontologica. Tutto è soggetto a questa legge. L'ente, qualsiasi ente, la cosa, l'evento, qualsiasi essere o stato di cose, viene dal nulla e al nulla ritorna. Il tempo non è che lo stesso articolarsi nello spazio, essendo questo il luogo stesso dell'apparire dell'ente, la sua condizione di strutturazione ontologica come temporalizzazione materiale esso stesso, dell'ente in quanto ente soggetto al mutamento, e il suo mutare, trasformarsi interno, nel divenire complessivo del suo mondo, della realtà, è un continuo oscillare dal nulla all'essere e dall'essere al nulla. Tale è la struttura epistemica del pensiero occidentale informato alle sue origini dai greci. Aristotele, il codificatore, così scrive: <>(25). L'essenza della concezione filosofica del divenire è empirica, consiste nell'esperienza del reale, che l'attualità della cosa, attualità che nella sostanza è divenire assoluto - passaggio dal nulla all'essere - e nelle predicazioni della sostanza, divenire relativo delle sue caratteristiche e proprietà transeunti. Qui è presente anche la logica della predicazione, nonché l'essenziale relatività delle proprietà della sostanza, che è nascita e morte - essendo ogni sostanza animale soggetto di nascita e morte. Il predicato stesso è assoggettamento della sostanza al suo essere un non-nulla momentaneo, che al nulla deve tornare. Tuttavia Aristotele dice ancora: <>(26). Il "quando" una cosa non è, o una proprietà, un predicato, che nasce scisso, separato, differenziato rispetto alla sua sostanza, la quale, a sua volta è sempre un assoluto privato dal suo essere: cioè il "quando" essa non è. Il logos aristotelico, che è il logos greco, de-finisce e conciostesso de-linea e de-limita il contorno della cosa alienata dalla sua costellazione essenziale, privandola dunque della sua identità con la totalità dell'essente. Logos scientifico, ovvero appropriazione epistemica dell'individuo, dell'ente, nel suo naufragio "pro-vocato" dall'essente. Definizione dell'"immobile", ma non dell'"effettivo", cioè del divenire che è reale. Si noti la contraddizione stratificata, per così dire. Se appare contraddittorio il concetto stesso del divenire come passaggio dal nulla all'essere (e, pur nel riconoscimento di questa contraddizione, si recupera una astratta impossibilità del nulla, ma una sua realtà di fatto circoscritta al "quando" la cosa non-è), la cosa, l'ente stesso non è definibile se non al di fuori del suo stesso apparire, del suo stesso essere nella totalità in atto del suo apparire. La conoscenza delle cose è dunque fondata sull'arresto del divenire stesso delle cose, altrimenti è impossibile(27), come dice Aristotele sempre al libro VII della Fisica(28). Ed è dunque questo logos ad imporre il suo kosmos, l'ordine che si esprime nella radice indoeuropea kens che ritorna nel censeo latino essendo "ciò che si impone con autorità"(29).Ma per il momento(!) torniamo al concetto di divenire così come il pensiero europeo è venuto formulandolo. La stessa concezione del divenire di origine platonico-aristotelica è accolta da Hegel, il quale si sente in profonda assonanza con Eraclito di Efeso(30), che sosterrà il divenire come l'unità dell'essere e del nulla. Così al §88 dell'Enciclopedia: <<[...] il niente, considerato come immediato uguale a se stesso, è il medesimo che l'essere. La verità dell'essere come del niente è perciò l'unità d' entrambi. Questa unità è il divenire>>(31). Il toglimento dell'essere nella sua astratta posizione è il niente (das Nichts) - da intendersi come nulla, benché la traduzione crociana non ponga la distinzione dei due concetti che l'interpretazione heideggeriana avrebbe posto all'attenzione della filosofia europea(32) - ed è nella negazione determinata che l'effettuale in atto, il divenire si realizza come la sintesi ontologica del Tutto. Continua Hegel: <>(33). Essere e niente sono il medesimo ed in questa medesimezza si integra l'istante che consuma la luce dell'ente. La consunzione è il divenire, divenir altro che nega e trascende se stesso nell'essere sempre altro da se stesso, cosicché il divenire è il superamento dell'antitesi posta dall'intelletto e dalla rappresentazione. Il cominciamento del pensiero che si era posto nella sua astrattezza come essere e niente, antitetici, ora è perfettamente compiuto nell'essere del divenire che è l'essenza del superamento delle reciproche negazioni dei due concetti antitetici e la realtà effettuale concreta del processo dal suo cominciamento. Nel divenire quindi: <>(34). Ma il problema non è che il divenire sia, ma come sia. Problema che al di fuori della dialettica che informa in Europa le più disparate posizioni, dal marxismo all'evoluzionismo, dallo storicismo all'esistenzialismo, in Bergson trova una formulazione originale che sarà sviluppata da Deleuze in chiave nietzscheana(35). Severino andrà alla radice del problema e ne rovescerà i termini, sviluppando una potente visione della contraddizione e quindi del senso della "follia" del pensiero occidentale del divenire. Ciò che però qui preme è l'integrazione dell'antico concetto di Chaos cui abbiamo accennato all'inizio e il concetto di divenire così come si è andato configurando nel percorso del pensiero occidentale e nel vissuto, nell'inconscio di tale vissuto che è struttura, carne ontologica nella quale si specchia, come in un oceano liquido, l'immagine del mondo che informa l'intera civiltà occidentale e forse l'intera civiltà umana.In effetti l'io empirico sperimenta qualcosa che è chaos e qualcosa che è divenire caotico, perturbante, inafferrabile e incuneato ad ogni istante del tempo che vive e che lo vive. Non è che una sensazione, ma come tale essa informa il pensiero, deforma l'intelligenza degli eventi. L'io empirico sperimenta il chaos sotto forma di violenza(36), come violenza è la sostanza stessa del suo agire, scontrandosi con le cose, afferrando, dividendo, giudicando il mondo. E sperimenta il mutamento inesorabile, imprevedibile, necessario di ogni cosa, di se stesso, della vita, del suo stesso agire, del mondo. L'esperienza di quel contraddittorio essere del nulla che gli si imprime dentro è fatale e indistruttibile. Chaos e divenire sono esperienze del nulla. Tale è il risultato in atto che l'io empirico sperimenta. Il primo come vuota apertura, spalancamento di imprevedibilità possibili; il secondo come sua modalità, necessità fatale e indomabile. Se l'Apertura ancipite sta al di sotto dell'istante, di ogni istante, essa stessa ne è l'origine, la scaturigine, la sua condizione di realtà; quest'ultima ne è la violenza, violenza dall'interno del suo aspetto cosciente, il pensiero ontico che si circoscrive nel suo punto di vista articolandosi nella complessione dei punti di vista collettivi, sociali - strutturanti una metafisica del reale che è a sua volta punto di vista - animati dalla stessa forza che vuole produrre altra realtà, difendendosi dalla violenza. E allora dall'inizio della "coscienza" ontica, si nominano il chaos, il luogo da cui provengono gli dèi e da cui proviene la totalità di ciò che è, il nome più antico dell'archè; e il kosmos, l'ordine che si stabilisce, l'equilibrio ordinato dell'assetto del reale in cui il logos impone identità, differenze, tassonomie, leggi, misura, mappando il territorio abitabile in cui il mortale costruisce il suo mondo(37), cercando di rimediare al Terrore del nulla - che non necessariamente è un non- essere che inghiotte tutte le cose, ma è semplicemente il nome dell'esperienza e dell'evidenza epistemica che dissolve le speranze, le illusioni, la vita, infine questa coscienza senza altro illusorio centro che il proprio io empirico, votato al nulla esso stesso. È il nichilismo, nel suo principio essenziale e concreto. È la fede nel nulla di tutte le cose. Nel nulla dello stesso esserci dell'uomo e dell'essere del Tutto. Quello stesso "nulla" che ha bisogno di un dio che gli conferisca l'essere provvisorio nella dignità del suo divenire nulla, che egli ritorni nel seno del chaos o nel regno dei cieli. Ma di ciò tutto è stato detto(38)?
NOTE AL CAPITOLO I.
(1)W. Shakespeare, Come vi piace, II, 7.
(2)W. Shakespeare, Amleto, III, 2.
(3)Ovidio, Fasti, I, 1, v. 103.
(4)F.W.J. von Schelling, Filosofia della mitologia, trad. it. Mursia, Milano 1990, p. 363.
(5)Ivi, p. 347.
(6)Ivi, pp. 349-50.
(7)Ibidem.
(8)Ibidem.
(9)Ibidem e cf. Platone, Timeo, p. 51 A.
(10)Ibidem e ivi, p. 351. Val la pena anche ricordare la nota in cui Schelling fa riferimento a Paracelso e Bӧhme ulteriormente chiamati a dar prova del senso custodito nel termine Caos di "apertura" e assenza di resistenza, che parlano degli gnomi, capaci di passare attraverso qualsiasi corpo solido come le rocce, le pietre, gli alberi, che sono tutte cose "caos" per loro, cioè senza resistenza. La nota è a p. 364 dell'ed. it. cit.
(11)Rimandiamo, per la dottrina schellinghiana delle tre potenze, alla sua vasta opera, ma in particolare, quali compiute formulazioni, a: F.W.J.von Schelling, Filosofia della Rivelazione (1858), a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997 e Id., Sui principi sommi. Filosofia della rivelazione 1841/42, a cura di F. Tomatis, Bompiani, Milano 2016.
(12)F.W.J. von Schelling, Filosofia della mitologia, trad. it. cit., p. 353.
(13)Ivi, p. 355.
(14)Ivi, pp. 356-360.
(15)Ivi, pp. 361-363. Cf, anche lo studio fondamentale di G. Dumézil, La religione romana arcaica (1974), trad. it. Rizzoli, Milano 2001, pp. 290 e sgg.
(16)Aristotele, Fisica, IV, 208, b 31 e sgg.
(17)I. Kant, Allgemeine Naturgeschichte oder Theorie des Himmels, 1755, Pref., cit. in N. Abbagnano, Storia della filosofia, Dizionario di filosofia, aggiornato ed ampliato da G. Fornero, vol. 10, Gruppo editoriale L'Espresso, Roma 2006, p. 271.
(18)F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), §109, trad. it. in Opere, vol. V, tomo 2, pp. 136-37.
(19)E. Severino, Istituzioni di filosofia (1968), Morcelliana, Brescia 2010, pp. 109-12.
(20)Ibidem.
(21)Ibidem.
(22)Ibidem e ivi, p. 110.
(23)Ibidem.
(24)E. Severino, La struttura originaria (1958), Adelphi, Milano 1982.
(25)Aristotele, Fisica, I, 7, 190a 30.
(26)Ivi, I, 8, 191b 12.
(27)<<"Di quanto trascorre incessantemente avremo il diritto di dire che prima è questo e poi quello?" infatti "mentre parliamo, non inizia necessariamente a mutare e, ritraendosi, a non essere più se stesso?"(Cratilo, 459d; Teeteto, 182d). Platone indugia nel piacere di descrivere questo amabile delirio in cui si rinchiudono coloro i quali, non sapendo astrarsi dalla sensazione, privano qualsiasi cosa del suo Essere. Di conseguenza essi non possono più definire e, quindi, non concepiscono più niente - non possono più pensare>>: F. Jullien, Parlare senza parole. Logos e Tao, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2008.
(28)Aristotele, Fisica, VII, 3, 247b: <<È grazie all'arrestarsi e al rimanere ferma che la ragione pensa e conosce>>.
(29)E. Severino, Istituzioni di filosofia, cit., p. 111.
(30)G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 147-56.
(31)G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 103-104. Rimandiamo anche, nell'ambito della oceanica letteratura hegeliana, ad un testo del 2001 in inglese, pubblicato in traduzione italiana nel 2013 di Glenn Alexander Magee, Hegel e la Tradizione ermetica. Le radici "occulte" dell'idealismo contemporaneo, Edizioni Mediterranee, Roma, di estremo interesse per tutto un aspetto della filosofia idealista tedesca completamente ignorato dalla storiografia filosofica accademicamente "popolare".
(32)Per una rapida disamina storica del concetto di Nulla rimandiamo a E. Severino, Istituzioni di filosofia, cit., pp. 209-12.
(33)Ivi, p. 104.
(34)Ivi, §89, p. 108.
(35)Cf. per H. Bergson: L'evoluzione creatrice (1907), trad. it. Dall'Oglio, Milano 1991; G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, trad. it. Einaudi, Torino 2001; Id., Nietzsche e la filosofia, trad. it., Feltrinelli, Milano 1992.
(36)Cf, su violenza e filosofia: E. Weil, Logica della filosofia(1950), trad. it. Il Mulino, Bologna 1997, pp. 79-123.
(37)Cf. per un punto di vista filosofico e storico-religioso: R. Brague, La saggezza del mondo. Storia dell'esperienza umana dell'universo, trad. it. Rubettino, Soveria Mannelli, Catanzaro 2005.
(38)E. Severino, Il nulla e la poesia, Rizzoli, Milano 1990; Id., Cosa arcana e stupenda. LOccidente e Leopardi, Rizzoli, Milano 2006.
CAPITOLO II. TRASCENDENZA.
II.1. METAFISICA DELL'ESSENTE.
La nostra prima parte dedicata ad una esplorazione dei concetti metafisici del pensiero occidentale giunge qui al centro del suo Chaos. Il cerchio che serve da modello a Schelling per stabilire il senso della tematizzazione antica del Chaos, vale a dire il chiudersi del complesso delle narrazioni mitologiche in un tutto coerente, che vede se stesso come realizzazione e compimento di un ciclo che dal Chaos insorse e al Chaos ritornò(1), è qui per noi simbolo della potenza racchiusa nel concetto e nell'esperienza della Metafisica occidentale (e orientale), che costituisce la radice dell'epistéme così come si è configurata in occidente; e del Satcitananda - Esistenza, Coscienza, Beatitudine - orientale(2), dimensione di pensiero, di sapere, di pratiche ascetiche e rituali, che non ha un termine analogo a quello di metafisica, ma ne ha in comune l'essenziale carattere spirituale. Questo carattere è quanto accumuna le esperienze religiose, mistiche, con la speculazione filosofica, quella detta appunto metafisica, che se da un lato è un'istanza razionalista di volontà di comprensione del reale su un piano essenzialista e ontoteologico, dall'altro è la costituzione di un sapere che realizza se stesso nella relazione con il "mondo" e il molteplice in un orizzonte finalistico e di natura spirituale. In cui l'essere nella sua identità totale si costituisce come l'integrazione del soggettivo e dell'oggettivo(3). Quasi nessun filosofo metafisico ha realmente posto in questione la realtà di questa integrazione originaria, semmai ha tessuto variazioni sulla sua fondazione e giustificazione(4). Vero è del resto che la filosofia ha sempre elegantemente insistito sulla verità presupposta e difficile di una unità strutturale di soggettivo e oggettivo, che tuttavia non appare, non può apparire. Hegel, ne La Fenomenologia dello Spirito(5), sa che è l'intelletto che separa, essendo la totalità dell'essente un'unità in sé di opposizioni superate-conciliate nell'Assoluto che è pensiero ed essere; così lo Heidegger definitivo pensa la Differenza ontologica come la Contraddizione della Necessità che nasconde l'essere nella verità dello Ereignis appropriante che non può non apparirsi nella soggettività storico-destinale trascendentale che abita il mondo ed in definitiva non riesce che ad essere-mondo nel dominio di questo. Heidegger trionfa sulla Tecnica solo col mistico abbandono al "chaos", l'apertura originaria, che lascia sporgere una verità inattingibile dell'assetto autentico del Tutto, il Geviert, già ab origine tolto, negato dal dominio della Forma jȕngeriana dell'Operaio - macchina di carne, ferro e volontà di irresistibile potenza destinale. Heidegger-Jȕnger trionfa nel suo errare, ma non uscendo dalla contraddizione di un pensiero che asseconda troppo il proprio naufragio(6). Ma perché giusto tracciare questa linea di sangue hegelo-heideggeriana ed invece non muoversi in ambito ontologico-analitico o fenomenologico-religioso? Da MacTaggart a Armstrong o da Zubiri alla teologia di Balthasar? O ancora da Teilhard de Chardin e più arditamente e liberamente ad Aurobindo? Per non citare i nuovi modelli alla Sloterdijk e la più interessante ricerca sinosofica alternativa di Jullien. Semplicemente non facciamo storia della filosofia o dell'ontoteologia o della teologia o, ancora, delle nuove metafisiche dislocate verso Oriente, vuoi in un modo vuoi in un altro. Intendiamo però scandagliare l'opera del pensiero e approdare non al Senso, ma al Vero - che non appare. Dunque soggettivo ed oggettivo, sostanza e cosa, realtà, apparire e natura dell'esistenza, dello spaziotempo, dell'essente nella sua totalità, oggetti questi del Pensiero i quali appaiono radicati nel linguaggio e nello scroscio delle etimologie che riflettono l'essenza dell'azione che a sua volta pensa il reale per fletterlo a sé, cioè all'efficacia dell'azione stessa. Tutto quindi comincia qui, nell'agire, primo motore e inizio della potente illusione che l'essere sia l'atto che si consuma. Xavier Zubiri ha così espresso l'istanza di una integrazione agente del pensiero e del mondo, del reale e dell'intelligenza: <<È impossibile una priorità interna del sapere sulla realtà, né della realtà sul sapere. Il sapere e la realtà sono alla loro stessa radice strettamente e rigorosamente congeneri. Non vi è priorità dell'uno sull'altra. E questo non solamente per le condizioni di fatto della nostra ricerca, ma per una condizione intrinseca e formale dell'idea stessa di realtà e di sapere. Realtà è il carattere formale - la formalità - secondo il quale l'appreso è qualcosa "in proprio", qualcosa "da sé". E sapere è apprendere è apprendere qualcosa secondo questa formalità>>(7). Ciò implica una azione in atto, un esserci dello svolgersi del Tutto precipitato in ogni centro dell'essente che è centro ovunque ci sia essente, e questa azione in atto ha un volto che le è stato originariamente conferito dall'immaginazione filosofica dei greci. Il divenire nella sua natura e carattere da essi conferitogli come un venire dal nulla e un ritornarvi.Ma se un filosofo ha cercato il senso dell'atto e dell'azione nella sua essenza filosofica scoprendone la sconcertante natura nichilistica, quello è stato Giovanni Gentile. La metafisica gentiliana è metafisica del volto nullificante del divenire greco - Severino ne ha delineato il carattere proprio(8) - facendo sì che si codificasse in qualche modo definitivamente su un piano teoretico l'essenza della civiltà occidentale in tutta la sua assurdità, nobilissimo stato delle cose generato dallo stato di coscienza della Follia. Gentile filosofo scomodo e dimenticato dall'ottusità ideologica falso-perbenista, ma Gentile il filosofo, che fa dell'atto e del pensiero la sintesi agente dell'essere e del senso greco del divenire, del soggetto e dell'oggetto, del pensiero e del reale, nonché Gentile massimo profeta degli esiti della Tecnica, per dirla con Severino. Insomma Gentile come prova che la filosofia rivela il suo volto dopo che ha agito, dopo aver agito essa stessa nel sottosuolo del Pensiero e del Linguaggio, quando ancora il suo saphès, il suo vederci chiaro mormora in preda alla volontà, al di qua della luce dell'ente(9). La filosofia italiana non ama certo suo passato, ma soprattutto non di rado sa celare la sua malafede nel non saper riconoscere i propri geni, ammaestrata com'è, in gran parte dei suoi devoti esponenti, da velleità attinte alle scienze esatte, che esatte non sono, o a ontologie autoptiche di dubbio significato. Giovanni Gentile, originario di Castelvetrano, nel trapanese, classe 1875, derivò la sua interpretazione dell'hegelismo da B. Spaventa, confrontandosi anche con la filosofia di A. Rosmini, V. Gioberti e soprattutto di K. Marx all'interno del dibattito italiano ed internazionale sulla concezione materialistica della storia di quest'ultimo. Fu cattedratico, quindi ministro della pubblica istruzione dopo la sua adesione politica al fascismo, amico prima e poi "nemico" dell'altro grande protagonista della cultura italiana di quegli anni, Benedetto Croce; ucciso dai partigiani nel 1944 per la sua adesione alla Repubblica di Salò - la punizione per la coerenza di un uomo prima che di un intellettuale, oppure l'esito di una volontà di esautorazione di un personaggio scomodo specie per i colleghi? - , è il filosofo che ha portato a compimento la metafisica idealistica e il senso stesso della filosofia occidentale. Gentile sa che glissare la distruzione degli "immutabili" rende il significato del divenire in senso greco - il divenire delle cose in quanto loro sorgere dal nulla e ritornare al nulla - completamente assurdo, essendo implicita l'impossibilità del divenire in presenza di un Immutabile. Estinta ogni potenza immutabile appunto che reggesse l'assetto ontoteologico del Tutto nel suo divenire, questo e solo questo potrebbe sussistere ( contraddizione, questa, tuttavia, estrema). Come ha scritto Emanuele Severino: <> (10). Dunque se l'Immutabile esiste il divenire non è. Ma se il divenire è ciò che appare nella sua indiscutibile evidenza, allora qualunque Immutabile è impossibile. Tale l'estrema conclusione del pensiero di Gentile, che con Leopardi e Nietzsche ha portato alle sue estreme conseguenze l'epistème occidentale, smascherandone la contraddizione fondamentale. Nella sua Teoria generale dello Spirito come Atto puro(1916), Gentile riformula la dialettica hegeliana delle forme trascendenti l'idea immantenizzando la totalità dell'esistente nel pensiero che pensa se stesso come "autoctisi"(11), quindi come atto puro e costante divenir se stesso. Il pensiero accade come manifestazione - il divenire - tale essendo la natura trascendentale del Soggetto, cioè divenire incessante che pone in atto se stesso nelle forme dell'esistente, Natura compresa. Presupporre qualunque Immutabile come preesistente al divenire in atto del pensiero che è essere e non-essere, appunto divenire, è "intellettualismo", errore che scambia l'unità astratta separata dalla realtà pensata in atto del pensiero, che è l'unica realtà unificante il molteplice nel suo essere in atto, come "fondamento", ingannandosi dunque sulla reale natura dell'essere-divenire attuale. Con Gentile il grandioso errore dell'Occidente, l'errore che consisterebbe nell'impossibile conciliazione di essere e non essere nell'immagine del divenire di origine greca, fondamento questo dell'epistème del nichilismo occidentale, viene alla luce, insieme alla distruzione e smascheramento di ogni forma di Immutabile che stia a garanzia dell'esistente. Ma da questa krisis sorge il ripensamento e il significato della filosofia, che non è il risultato di un modello di civiltà, ma il suo presupposto fondante. Ora, se il pensiero è azione - come atto - l'estrema dimensione soggettiva dell'essere trascendentale costituisce il reale come sempre posto dal pensiero, sempre come pensato in fuga ma storicizzantesi come istante che trascorre, lasciandosi dietro solo la memoria del suo esser stato, esser stato che è estinzione, nulla, oblìo; allora l'essere stesso non ha consistenza, è un contraddittorio e impossibile esserci del non-essere. Tale l'estremo nichilismo che fa di ciò che è, il nulla propriamente detto. Ma l'evento stesso della realtà, cioè il suo farsi reale, come limitazione e suo inveramento, quindi dissolvimento - processo già descritto da Hegel, ma demolito in Gentile(12) - che cosa è? Se l'immutabile nella sua carcassa del Soggetto trascendentale gentiliano si identifica con l'azione che fa e disfa l'essente-reale stesso quest'ultimo si configura come contraddittorio, essendo e non essendo - potendo venire all'essere e potendo non esser più - , esso è già un nulla, è nulla. L'azione, ovvero l'atto del Pensiero come natura naturante del Soggetto trascendentale è inconsistente in quanto impossibile. E l'azione invero, come reale, ovvero come attualità generante dell'essere del Soggetto trascendentale, un inganno. Infatti, l'agire non è che la maschera conseguenziale dell'immagine del divenire inteso in senso greco, non è che l'immagine del divenire, dunque, inteso insenso nichilistico. L'agire è la resultante che deriva originariamente dalla persuasione che l'ente sia un ni-ente, la sua originaria, trascendentale negazione. Ora l'essere-reale, la cosalità dell'ente - già concepita fenomenologicamente nel suo isolamento epistemico, ex voto e promessa della sua nullità - non è alienabile dal suo essere evenemenziale - nella prospettiva nichilistica del divenire cosa dell'ente isolato - che è anche e soprattutto la costellazione della totalità dell'essente per cui la cosa, l'ente, insorge. La sua struttura persintattica è la sua identità ontologica come lo Sfondo del suo essere, ma dalla sua collocazione subiettiva, ovvero dalla sua struttura iposintattica(13). Che Io sia questo essere qui e ora implica la totalità di tutto il processo del mio esser sé che però è tale solo e soltanto nella costellazione totale dell'essente di cui io sono la differenza identificabile, ma della struttura complessiva il mio io empirico guarda solo dal suo point-de-vue. L'evento di ogni realtà, il farsi di ogni reale, compreso me, il mio esser qui e ora, è una parte che l'epistème che vuole l'ente isolato dalla sua struttura originarie e dunque dalla persintassi del Tutto nel suo apparire qui e ora, di tutto il suo esser stato e del suo futuro, già in quanto apparire isolato, sia il venire e il ritornare al nulla dell'ente stesso. Ma se la totalità dell'essente è la persintassi di ogni cerchio finito, necessariamente tale totalità è strutturalmente natura infinita dell'apparire che appare apparendo nel qui e ora, tre dimensioni dell'apparire che fanno la necessità per cui le cose appaiano e scompaiano nel limite del loro cerchio finito(14). Come si combina allora la negazione dell'essente e della sua appartenenza - che il divenire concepito nichilisticamente è - alla totalità, con la stessa negazione originaria da cui scaturì l' agire come bisogno, come volontà di potenza? Ontologicamente è una necessità. Onticamente appare come libertà. Quando dal punto di vista di questo io empirico, del mio io empirico realizzo azioni, in esse io appaio libero. Ma le azioni sono il dinamismo erratico della volontà, esse sono l'opera della credenza, che in esse o mediante esse si possano raggiungere scopi. Quindi è l' isolamento dell'ente, la struttura epistemica che negando la propria in-sistenza nella e come totalità, pone il proprio agire quale maschera della propria stessa natura intrinseca. E tale negazione è la conseguenza necessaria del medesimo apparire dell'apparire dell'apparire - perciò la libertà è impossibile(15), esattamente come è necessario che nell'apparire debbano apparire la Contraddizione, la Negazione, l'Isolamento. In Labirinto filosofico Massimo Cacciari delinea secondo una prospettiva metafisica tesa a far emergere, in discussione con il pensiero in esame, dalla nebbia del linguaggio la luce dell'ente, esplorando i risultati del lavoro filosofico di Emanuele Severino. Osserva Cacciari che: <>(16). Ciò implica che l'agire, come interfaccia dell'attualità dell'ente qui-e-ora, si configuri come il dispiegamento stesso del suo apparire, sembrandone l'essenziale forma epifanica. Ora, l'ente appare come azione, ma la 'fattualità' dell'azione non è l'indice della sua proprietà essenziale, non ne denota la verità, in sostanza l'ente non appartiene al come del suo darsi, ma è il come del suo agire che appartiene ad una dimensione o variabile del suo apparire. La verità dell' essente quindi non va confusa con l'atto del suo esser qui e ora un'agente empiricamente visibile, quindi osservabile nella sua actuositas. La differenza, a sua volta, che reca con sé, il dinamismo dello sviluppo, la mitosi ontica della separazione dall'Uno, d'altra parte non è perciò la separazione dell'ente, ma la forma del suo apparire insieme alla totalità dell'essente. Prosegue Cacciari: <>(17). Indubbiamente l'essente diviene. Ma diviene insieme alla totalità delle costellazioni di essenti che lo accompagnano. La totalità del suo cerchio che appare nella parzialità del suo stesso apparire, che appare come temporalità, gradualità, parabola di apparizioni e scomparse di differenti stati del suo esser Sé, del suo Uno, è il dinamismo di un divenire che esige non il nulla per risolvere gli istanti, ma la processione dell'eterno dello stesso esser Sé d'ogni essente, tale che, allora, l'agire, l'attualità agente non appartenga più all'ente ma alla totalità persintattica del suo stesso apparire: <>(18). Nell'apparire il piano del percetto è il piano della Contraddizione C(19), che costituisce la necessità dell'apparire differito dell'essente, il tempo che lo dispiega, il suo apparire e scomparire e in questo cerchio finito, l'apparire e scomparire dei suoi stati. La luce dell'ente o dell'essente non può apparire ell'apparire dell'essente, poiché altrimenti sarebbe impossibile l'apparire stesso dell'essente, esso dovrebbe già apparire come l'Intero del suo esser Sé nella costellazione infinita del cerchio del Destino(20). Dunque la dimensione della percezione obbedisce a dinamiche che se per- sintatticamente costituiscono lo sfondo di ogni qui-e-ora nell'io empirico, esse coinvolgono anche le dimensioni dell'esteriorità non inclusa nell cerhio della coscienza incarnata o della carne cosciente dell'io stesso, ma ne sono il supporto, essendone già la tessa téchne, che è propria della natura stessa della Volontà. In altre parole la dimensione della percezione è una interfaccia dell'agire medesimo, ciò per cui la Volontà vuole, la credenza crede, il piacere gode, il dolore patisce. La luce dell'essente resta nascosta nell'inconscio dell'apparire, non già perché ne sia l'"anima", ma perché ne è il segreto de-stante(21). Il suo Fondamento, la Struttura originaria. Seguiamo ancora la riflessione di Cacciari: <>(22). L'essente, questo, si dice in molti modi, ma il linguaggio che lo dice come può vederlo nel suo esser Sé, cioè nella sua sempiternità? Se la filosofia crede di vedere il nulla dell'essente nella fede nel divenir altro dell'ente, come può ciò che è già filosofia vedere la follia di questa fede e restaurare l'inaudito? E come fare i conti con l'evidenza della finitezza - la dimensione del limite, della mortalità, stato incontrovertibile dell'apparire? <>(23). La medesima natura della traccia appartiene al linguaggio e appartiene all'apparire, nella stessa misura in cui l'uno è l'interfaccia dell'altro, certo non simmetricamente, ma in modo per così dire anamorfico, maldestro, aperto, variabile, disturbato e contraddittorio. Ed è nello smascheramento della contraddizione - non la Contraddizione C! - che il linguaggio della filosofia - ovvero l'epistème della Terra Isolata - è distrutto nell'élenchos. La confutazione apre e fende il linguaggio che maschera l'errore, errore esso stesso e s-catena l'emersione del linguaggio che testimonia la verità del destino - de-stare del fondamento - che è la stessa Gioia, che ancora non può apparire. In Cacciari quindi il discorso filosofico di Severino è analogo al proprio in riferimento al ri-velarsi nel linguaggio dell'"inconscio" o "inaudito" celati nell'essente(24), differendone però per le conclusioni escatologiche che Cacciari ontoteologicamente intende preservare(25), e che in Severino consistono nella fondazione teoretica e tematizzazione della necessità della manifestazione della Gioia, cioè l'apparire aionico dell'esser sé dell'essente, appunto, sempiterno. Ora, prosegue Cacciari confrontandosi col filosofo, <>(26). La limpidezza di questa esposizione del filosofo veneziano non ha pari e delinea pregevolmente e con semplicità la stessa semplicità delle conclusioni severiniane. Se l'essente appare, appare perché ciò che è, non ciò per cui è, gli appartiene, è esso stesso l'essente. Quindi ad esso appartiene l'eternità onto-logica che nell'apparire lo svolge perché esso è eterno. Non al contrario: l'essente non è eterno perché appare, ma appare perché è eterno. L'apparire tuttavia è apparire della finitezza - è la dimensione della Contraddizione C cui si faceva riferimento sopra - : <>(27). Se il de-stare del destino è la medesima struttura originaria dell'identità dell'essente nel suo legame con la totalità delle sue costellazioni e dei cerchi finiti - le identità degli essenti via via sopraggiungenti - , allora la necessità dell'oltrepassamento, del trascendimento dei limiti costituitisi nella dimensione dell'apparire e scomparire degli stati dell'essente è la conseguenza incontrovertibile del principio stesso che identifica ogni essente. Questi dunque è la massima Gloria della Gioia, cioè la massima manifestazione della propria luce nell'oltrepassamento dell'erranza e dell'isolamento. Pur essendo l'errare un eterno, come eterno ogni piacere e ogni dolore, ogni nascita e ogni morte, ma in quanto dinamiche proprie del sé dell'essente la cui luce essenziale è trascendimento di quelli che nell'apparire sono i limiti della Contraddizione C. Qui il linguaggio si agita e gonfia come il mare che si prepara alla tempesta. Così Cacciari: <>(28). E la traccia di una tale Luce, come si rileva nel linguaggio, si domanda in colloquio con Severino il filosofo veneziano? E, come abbiamo anticipato sopra, la risposta è l'élenchos: <>(29). La carcassa del platonismo o di una sua sottospecie fossile oppure, ancora, una sorta di soprannaturalismo postneoscolastico più che neoparmenidismo, come del resto compilatori ottusi continuano a definire l'opera di Severino, sembrano risorgere nella fondazione teoretica del filosofo bresciano di una metafisica dell'eternità dell'essente. Ma è oppurtuno svolgere una lunga digressione a partire dal commento cacciariano. In realtà il pensiero che si riflette negli scritti di Severino sfugge ad ogni volontà di classificazione e allo stesso tempo trascende ogni possibilità di paragonarlo a qualunque altro pensiero, occidentale e orientale, anche se con quest'ultimo sembra risuonare non poco. Infatti l'essente in Severino è pensato secondo una ontologia 'forte' che ne conserva tutte le dinamiche fondative e fondamentali - non esistendo possibilità alcuna che qualcosa dell'essente non sia eterna. L'eternità dell'essente d'altra parte non è un assioma o un dogma metafisico, ma il risultato stesso dell'élenchos, e come tale è appunto quell'unica verità incontrovertibile che è la verità di ogni essente nella totalità di ciò che è. La confutazione fondamentale dell'esser niente dell'essente si costituisce come lo smascheramento della follia originaria dell'errore occidentale, ma la 'grandezza' dell'errore è anche la necessità che della Contraddizione C che costituisce l'essenza stessa dell'Apparire, ciò per cui l'essente non può apparire come il proprio intero nella totalità del cerchio infinito del destino - cioè della struttura originaria. E ciò è impossibile poiché l'Apparire stesso sarebbe impossibile, contraddittorio e irrealizzato. Ora, l''idea' dell'eternità dell'essente è posta da Cacciari - in una mise-en-space delle tesi opposte - contro quella della sua nullità, collocando in questa teoresi dialettica l'evidenza della finitezza dell'ente insorgente nella sua luce. E la sua disamina si pone all'interno della tesi dell'eternità dell'essente secondo la lezione severiniana che la pone come altrettanto evidente dell'errore nichilista che vorrebbe l'essente provenire dal nulla e al nulla far ritorno: <>(30). Se l'esperienza può recare le tracce che indicano seppur oscuramente, che l'essente è eterno, l'esperienza mostra che l'Apparire è apparire della finitezza, addirittura, secondo Cacciari mostrerebbe che l'ente esiga di essere altro da sé, trasformato, consumato, aggiungeremmo, crocifisso al suo isolamento, alla sua alienazione, da esso stesso richiesta, richiedendo peraltro di identificarsi nel rovesciamento cristico che scorre nella riflessione del filosofo veneziano, con il Crocifisso. Ma in Cacciari così si presume uno sfondo teologico che già l'élenchos ha refutato. Così naufraga il 'colloquio' con Severino: <>(31). Se presume il possibile, Cacciari non può non far riferimento all'ontoteologica del Compossibile - leggi: Dio - nel quale stanno gli eterni, giacché il possibile è inscritto nel presupposto della contingenza che è già nello sfondo della scelta intorno a ciò che può o non può apparire da parte di una volontà che trascende l'apparire stesso e che quindi vuole l'ente altro da sé. In altre parole il colloquio che Cacciari instaura con Severino restaura ciò che l'élenchos aveva tolto.
II.2. ESSER SÉ ED ETERNITÀ DELL'ESSENTE.
Non può essere riscritto Severino, come il celebre personaggio borgesiano pretendeva di fare col Don Chisciotte, ma lo si può esporre nella sostanza e porsi in colloquio con lui. Ogni colloquio può assumere i caratteri dell'esperienza interiore, come la meditazione o l'azione, la cosiddetta prassi, nel movimento che impone ogni agire costituentesi nell'ambito inoltrepassabile della volontà che vuole, della volontà di potenza. Il linguaggio nell'orizzonte concreto del quale tutto ciò che siamo prende corpo, non può che costituirsi come il protagonista di ogni agire "mentale", "conscio", "inconscio", "fisico", "gestuale", epifanicamente espressivo dell'apparire che noi stessi siamo, ignorando proprio in quanto apparire da protagonisti, di essere l'apparire stesso dell'essente che, ancora, siamo nel Tutto. Il destino è l'esser sé del'essente, cioè l'eternità di ogni essente nella luce della Gloria, vale a dire l'Intero - che non è nessun dio, ma la stessa differenziale integrazione dell'essente nella totalità di ciò che è. Ciò implica una forma di unità che non è uno ma identità delle differenze in quanto ogni differente è identico, nella sua differenza, all'altro e quindi ogni identità è l'altro, il che implica a sua volta una ontologia strutturale della molteplicità e un legame relazionale dell'essente in quanto è un tutto nel Tutto, eternamente. E qui l'ontologia di Severino, la metafisica di un uomo, diventa incomprensibile per molti, diventa inaudita. Principalmente ciò accade perché è impossibile per il pensiero e la "prassi" comune e non, speculativa e intuitiva, che le "cose", gli "enti", gli "eventi", le "persone", i "fatti", la "storia", non divengano, cioè non trascorrano dal non essere all'essere e da questo nuovamente al non essere, non siano insomma null'altro che niente. Posto di fronte alla propria contraddizione - alla propria follia - il pensiero e la "prassi" arretrano, addirittura accontentandosi della follia che li possiede e nascondendosi dietro il Trono del Creatore, massima espressione di quella loro follia - l'Eterno, il Privilegiato, che detiene il potere della volontà di far essere le cose e/o annientarle. Persino il pensiero "laico" pur agnosticamente, vi si rifugia, mal celando la propria fiduciosa fede nella potenza cognitiva della "scienza" - che indaga "metafisicamente" (il "nulla"del)l'essente, ma lo fa autopticamente sul tavolo anatomico di una analisi alienata e alienante, "tecnica" e "tecnologica", di-videndo l'indivisibile, l'essente, e dunque radicandosi sempre più nel presupposto conscio o inconscio che le cose siano il niente da cui vengono e a cui tornano, che ogni cosa "muore", realmente uccisa dal pensiero ontoteologico e omicida che così le rappresenta: tale è l'essenza del nichilismo. La concezione nichilistica del divenire rappresenta l'essente come un divenire altro da sé, ma se l'essere dell'essente è il suo esser sé, l'insieme della totalità dell'essente stesso, questo non può essere altro da sé. Il fondamento del nichilismo consiste nella separazione dell'esser sé dell'essente dalla negazione della sua negazione: << l'essente è concepito come essenzialmente diveniente proprio perché il suo "esser sé" viene separato dalla immediata auto negatività del suo negativo. Se si comprende che questa separazione è immediatamente auto contraddittoria, cioè impossibile, si comprende che l'essente separato dalla necessità del suo esser sé non esiste, è una illusione. All'interno di questo modo di pensare separante, ogni essente è una illusione, cioè esiste solo come il determinato e positivo significare della sua impossibilità d'essere >>(32). Si crede che le cose passino dal non esserci all'esserci, ed in questo crederle tali le si crede cose, cose perché utilizzabili, manipolabili, controllabili, distruttibili. Oggetti da usare, oggetti da desiderare, da odiare, da creare o distruggere.Ma che cosa dunque significa propriamente l'espressione severiniana "esser sé dell'essente"? Leggiamo in Dike: << "Destino della verità", o "verità del destino" o, semplicemente, "destino": con queste espressioni... viene di solito indicato, nei miei scritti, l'assolutamente innegabile, l'"originario". La "struttura originaria" del destino - ripetiamo qui - è l'apparire dell'esser sé dell'essente in quanto essente: l'apparire dell'esser sé di ogni essente - e pertanto, innanzitutto, degli essenti che appaiono. L'esser sé è insieme il non esser l'altro da sé, ossia è il differire dal proprio altro - sì che l'esser sé è la differenza dei differenti. (È un essente anche il linguaggio, quindi anche il linguaggio che indica il destino)>>(33). Continuiamo a tener presente l'espressione "esser sé dell'essente" e procediamo nella lettura del testo: <>(34). Non si può non forzare il linguaggio che tende alla calma piatta per la sua natura inerziale e dunque forzandolo, agitarlo e renderlo persino scomodo. Del resto è da questo essente che il linguaggio stesso è che partiamo - esso è la "radura", l'"aperto" nel quale l'essente appare ed è detto. Ora, "esser sé dell'essente" costituisce l'identità totale delle differenze per cui l'essente non può esser altro da sé - o divenir altro da sé - poiché esso stesso consiste della totalità del suo apparire, del suo esser apparso, la totalità insomma di ciò che è ed è stato. Ma propriamente che significa essente in quanto esser sé dell'apparire di sé? L'essente - e per tale s'intende l'apparire del singolo ente che tuttavia sarebbe contraddittorio de-finire tale in quanto ogni essente si appartiene ed appartiene alla costellazione di una totalità essente a sua volta dai contorni indefinibili - è una totalità-che-appare. Totalità-che-appare nell'apparire e scomparire delle sue differenze ovvero dei suoi stati. Ma l'apparire non è qui soltanto il visibile, vale a dire la dimensione empirica del "qui ora" o di "questa terra".
NOTE AL CAPITOLO II.
(1)F.W.J. von Schelling, Filosofia della mitologia, cit., p. 352.
(2)Cf. Sri Aurobindo, La vita divina, trad. it. Edizioni Mediterranee, Roma 1998.
(3)Cf. R. Brague, La saggezza del mondo. Storia dell'esperienza umana dell'universo, cit., pp. 333-50. In cui l'autore è alla ricerca di una integrazione delle idee di mondo e di uomo - come dire oggettivo e soggettivo.
(4)In età moderna da Kant, passando soprattutto per Hegel, a D. M. Armstrong l'obiettivo complessivo è sempre lo stesso.
(5)G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione, trad it. Bompiani, Milano 2000, pp. 113-121.
(6) Cf di M. Heidegger soprattutto Tempo ed essere, trad it Guida, Napoli 1997. Di E. Jȕnger, L'Operaio, trad. it. Guanda, Milano 2006.
(7)X. Zubiri, Intelligenza senziente, trad. it. Bompiani, Milano 2008, p. 57.
(8)E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992 e 2007, pp. 77-98.
(9)Cf. le stupende ultime pagine di M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano 2014, pp. 336-42. Non sarebbe peregrino qui anche un riferimento a M. Blondel e al suo spiritualismo volontaristico di marca cristiana, altra emersione nichilistica di una filosofia dell'azione che radicalizza il divenire in un trionfo della volontà ontoteologicamente intesa: cf: M. Blondel, L'azione. Saggio di una critica della vita e d'una scienza della pratica(1893), trad. it. San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 1998.
(10) E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 2007, pp. 77-78.
(11)G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Garzanti, Milano 1991, p. 468 e sgg.
(12)Cf. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana e la rinascita dell'idealismo(1915), in Opere filosofiche, cit., pp. 247-444.
(13) E. Severino, La struttura originaria...
(14)Ibidem.
(15)E. Severino, Destino della necessità...
(16)M. Cacciari, Labirinto filosofico, cit., pp. 46-47.
(17)Ivi, p. 47.
(18)Ibidem.
(19)E. Severino, La struttura originaria...
(20)E. Severino, La Gloria. Risoluzione di Destino della necessità...
(21) Sul concetto di "destino": E. Severino, Essenza del nichilismo...
(22)M. Cacciari, op. cit., p. 47.
(23)Ivi, p. 48.
(24)Ibidem.
(25)Ibidem.
(26)Ivi, p. 49.
(27)Ibidem.
(28)Ibidem e p. 50.
(29)Ibidem.
(30)Ibidem e p. 51.
(31)Ibidem e p. 52.
(32)N. Cusano, Essenza e fondamento dell'amore, Mimesis, Milano-Udine 2012, p. 19.
(33)E. Severino, Dike, Adelphi, Milano 2015, p. 115.
(34)Ibidem e p.116.