Sul Comico. Eros, riso, morte.
I
"Komodìa" era il corridoio del théatron dal quale passava la processione dei figuranti che celebravano con le Falloforìe gli spettacoli comici nel V secolo a. C., nonché la processione stessa, la festa, theorìa, delle Artemisie, che prima delle Lenee precedevano le Grandi dionisiache in cui erano celebrati ad Atene gli spettacoli tragici.
Di Aristotele non ci è mai pervenuto il II libro della "Poetica" - o forse non l'ha mai scritto - ma sulla Commedia e sul comico, è stato scritto molto, in seguito. Che cos'è dunque il COMICO e quale sia il significato del riso, l'atto del ridere e che cosa lo leghi all'Eros e alla Morte è argomento di questo saggio.
Il primo comico, leggendario, che colse il senso filosofico del comico stesso è stato quel tal Epicarmo che secondo Aristotele, insieme a Formide, sarebbero stati gli inventori della Commedia. Da un suo frammento che vede rappresentato un dialogo tra un imputato e un mercante, un dialogo che potrebbe aver scritto Eraclito di Efeso, se avesse avuto il senso dell'umorismo necessario, si evince come Epicarmo giocasse a favore del divenir nulla di ciò che il tempo spazza via dal presente, un presente impossibile da afferrare, nulla esso stesso.
I Greci, e soprattutto quelli siciliani, avevano uno spiccato senso della precarietà instabile ed imprevedibile della natura dell'esistenza. Nella Noosfera che ravvolge il Tutto, il ritmo delle stagioni, il grande Anello del Ritorno, era la struttura ( co(s)mica?) che accoglieva ciò su cui gravava la colpa della Separazione del Contrari, la colpa di essere scisso dall'Unità/Dike originaria. E se l'esistenza, nascita e morte è una colpa, quanto più il molteplice incrementa se stesso, tanto più la sua hybris sarà punita - ad un incremento della quantità corrisponde un incremento della qualità. Come non riderne?
Nell'Imprevedibilità, e quindi nel Terrore (Thauma), si cerca, disincantati, conforto nel nulla. E del nulla dell'ente, che dal nulla proviene e al nulla ritorna, si cerca l'impossibile giustificazione critica: una Sophìa del Divenire, contraddittoria nel suo inconscio e contraddittoria nella consapevolezza teorica della ciclicità dell'apparire: l'APPARIR DEL VERO che ritorna in Leopardi è l'apparire della Morte che strappa alla "presenza" l'ente, il cui unico conforto è Eros, nell'incoscienza che quell'Eos che lo spinge a vivere sarebbe lo stesso che conduce al nulla della Morte. La Commedia, nella sua originaria incoscienza, è lo spettacolo atarassico che festeggia la fallica fertilità del dio, nel disincanto del Grande Meccanismo della Complessità in cui tutte le cose devono tornare al nulla da cui provengono e tuttavia ritornano perché la sostanza onirica di cui sono fatte è l'elemento imperituro che ci accoglie e restituisce, sotto altre forme a quella condanna che conseguì dallo squartamento di Terra e Cielo, o dallo squartamento di Tiamat, o dallo smembramento di Patanjali, o ancora dallo sparagmòs di Dioniso.
E cos'è che fa ridere in tutto questo, che infatti è sostanza tragica?
Semplice: le stesse cose che spaventano e terrorizzano nella Tragedia, fanno ridere nel rovescio comico, nel comico essendo tutto, ogni argomento, ogni contenuto, oggetto di riso. Non è un caso che il Venerabile Jorge condanni il Comico e uccida chi voglia accedere al leggendario II libro della Commedia di Aristotele nella remotissima Abbazia di Melk in quello scorcio di Trecento di cui Eco ci narra...ne "Il nome della rosa".
II
La categoria del Comico, come quella del Tragico, è trascendentale, perciò attiene alla struttura condizionale della rappresentazione, di più: è una condizione del Pensiero, l'essere del pensare in quanto potenza del "sentire" timico, della percezione dell'orizzonte esistenziale pensabile nella forma dell'emozione in cui a pensare è l'organismo vivo del corpo/pensiero, della Mente EMBODIED. Il corpo esprime la propria esistenza come esperienziale, il corpo pensante e il pensiero incarnato sono la stessa struttura dell'essente, sono la complessione dell' esistenza che in quanto complessione agisce se stessa tra cervello, carne, orifizi, viscere, organi - dentro/fuori - sangue e l'elemento invisibile che alita nell'apparire dell'essente - la Mente, come la chiamavano gli Antichi, la Struttura originaria, come la chiama Severino.
III
Non è un "gancio appeso al cielo", la Mente. Direi piuttosto che è la stessa "forza" che nell'ontosfera tesse l'ordito del Vivente e stabilizza l'instabile dell'evoluzione e della trasmissione della vita stessa, è il Pensiero, appunto, la Coscienza organica del Tutto - con buona pace del grande D. C. Dennett. L'argomento è il fondamento relazionale della Struttura che connette, che è il CONNETTERE coincidente con l'essenza incrementale della inìfinita ontosfera - e qui non possiamo riscrivere Severino, ma possiamo imitarlo con verità, come un attore imita l'idea del suo personaggio, nella speranza filosofica di esserne la verità.
Dunque "all'apparir del vero", cioè alla folgorazione che rende per un istante visibile l'invisibile - che lascia il Thauma alle spalle- che raggiunge il "folgorato" come una forza "esterna" che non è la Ventura, il Fato, ma l'ALEPH borgesiano della visione della totalità, insorgente, urgente, incontenibile; "all'apparir del vero" dunque, appare il Riso, che è anche Eros e come Eros si rivela: è un Comico.
Quale sarebbe il suo potere? LO SMASCHERAMENTO, giacché il vero appare in quanto e perché è l'essenza della CONTRADDIZIONE. "All'apparir del vero" è anche la scoperta e la denuncia della Morte e dell'inanità di tutte le cose nella morte di "Silvia". Ma è anche smascheramento, è anche disvelamento di ciò che prima non si vedeva o non si voleva o non si sapeva vedere e che ADESSO celebra la sua festa in cui la Morte gioca con Eros: e questo è il COMICO. E il Comico come tale è l'essenza ultima del nichilismo che solo in Eros libera se stesso dal nulla, forse dalla Terra isolata.
In una gag si nasconde lo smascheramento simultaneo del nulla e della contraddizione che ciò che è sia il niente che è nell'esser niente di ciò che è...
Il filo rosso che lega Epicarmo a Beckett e ai Fratelli Marx.
